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venerdì 27 novembre 2009

Eccessiva durata del processo: i criteri di quantificazione del danno secondo la Cassazione

I criteri di determinazione del "quantum" della riparazione applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale.

E' questo il principio confermato dalla Sezione Prima Civile della Cassazione, con la sentenza n. 21840 del 14 ottobre scorso, che è tornata a pronunciarsi sul tema dell'equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, ai sensi della Legge 24 marzo 2001, n. 89.


Occorre rilevare che in tempi recentissimi la stessa Cassazione ha stabilito che “la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata” (Cass. civ. Sez. I Sent., 8 luglio 2009, n. 16086).


In detta circostanza è stata richiamata la giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), secondo cui gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni “possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, “a condizione che le decisioni pertinenti” siano “coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato”, e purché detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito”.


Con quest’ultima decisione la Corte di Cassazione è ritornata sul criterio di quantificazione del danno non patrimoniale, stabilendo che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che ha fissato un parametro tendenziale che va da Euro 1.000,00 a Euro 1.500,00 per anno, non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, quali:

l’entità della “posta in gioco”, apprezzata in comparazione con la situazione economico patrimoniale della parte;
la durata del ritardo;
il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento;
il comportamento della parte istante, sicché rileva anche il ritardo c/o la mancata presentazione della cd. istanza di prelievo, la quale non incide sul termine di durata ragionevole, ma bene può essere assunto come sintomo di uno attenuato interesse per la controversia.

In mancanza d’elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale la Corte conferma che una liquidazione remunerativa del danno “che non sia indebitamente lucrativa” possa attestarsi su una cifra non inferiore ad € 750,00, per anno di ritardo ed aggiunge una precisazione.


Si tratta di una conferma degli argomenti e dei principi svolti nella precedente citata sentenza n. 16086 del 2009, “con la precisazione che tale parametro va osservalo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di E 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno”.


Si può completare l’informazione aggiungendo che già nel 2006 la Corte di Cassazione, ripercorrendo gli arresti della Corte di Strasburgo, ha individuato nell'importo compreso tra euro 1.000,00 ed euro 1.500,00 la base di calcolo dell'indennizzo per ciascun anno in relazione al danno non patrimoniale, da quantificare poi in concreto avendo riguardo alla natura e alle caratteristiche di ciascuna controversia. (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2006, n. 1630).


In tale circostanza la decisione si basò sulle pronunce della Corte europea del 10 novembre 2004 (in particolare, sul ricorso n. 62361/2000 e sul ricorso n. 64897/2001), che avevano appunto individuato la base di calcolo dell'indennizzo per il danno non patrimoniale nell'importo compreso tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 “per ciascun anno di durata del procedimento (e non per anno di ritardo)”.


Si puntualizzò, anche allora, che il limite minimo e quello massimo potevano essere superati, nella concreta quantificazione del danno, “per le particolarità della fattispecie (quali, tra le altre, l'entità della "posta in gioco" ed il comportamento della parte istante)”.

Autore:Giuseppe Mommo
fonte: Altalex
mercoledì 21 ottobre 2009

I disabili non hanno diritto alla sosta gratuita sulle strisce blu

Le strisce blu non perdonano nessuno: tutti devono pagare.

Anche il disabile che non ha pagato il parcheggio è soggetto alla multa; ciò avviene anche se tale circostanza era collegata al fatto che non avesse trovato nessun altro posto negli spazi appositamente riservati.

Nonostante le disabilità, quindi, e nonostante una nota ministeriale dicesse il contrario, il disabile deve, in ogni caso, pagare l’ente che gestisce la segnaletica.

Nessuna rilevanza può avere il fatto che gli spazi riservati appositamente agli invalidi fossero tutti occupati; i giudici della Suprema Corte hanno, infatti, con la sentenza n. 21271/2009, bocciato il ricorso di un uomo che, nonostante avesse esposto un valido contrassegno, era stato multato per non aver pagato il ticket.

La vicenda

La questione nasce proprio dal ricorso presentato da un disabile il quale aveva impugnato un verbale ricevuto dai vigili urbani, poichè si riteneva in diritto di lasciare l’auto sulle strisce blu senza pagare il ticket dal momento che l’area riservata agli invalidi era già stata occupata da altri.

Queste sue ragioni non hanno, però, trovano riscontro in causa: infatti, prima il magistrato onorario, e poi i giudici della Suprema Corte hanno respinto la sua istanza chiarendo che al riguardo non esiste una legge che prevede l’esenzione per i disabili dal pagamento del ticket della sosta sulle strisce blu.

Si leggeva in sentenza che “…… gli artt. 188, comma 3, c.d.s. e 11, comma 1, d.P.R. n. 503/1996., prevedono per i titolari del contrassegno l’esonero, rispettivamente, dai limiti di tempo nelle aree di parcheggio a tempo determinato e dai divieti e limitazioni della sosta disposti dall’autorità competente; l’obbligo del pagamento di una somma è, invece, cosa diversa dal divieto o limitazione della sosta, come del resto è confermato dall’art. 4, comma 4, lett. d), c.d.s. (per il quale l’ente proprietario della strada può vietare o limitare o subordinare al pagamento di una somma il parcheggio o la sosta dei veicoli’) che li considera alternativi”.

Neppure può avere fondamento il fatto di invocare a sostegno di una diversa interpretazione, come fa il ricorrente, l’esigenza di favorire la mobilità delle persone disabili.

Disabili e parcheggi a pagamento: la nota Ministeriale

E’ dell’anno 2006 una nota in tema di gratuità dei posteggi delimitati dalle strisce blu a pagamento occupati da veicoli al servizio delle persone invalide detentrici di speciale contrassegno.

Tale nota è del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Dipartimento per i trasporti terrestri - Direzione generale per la motorizzazione, 6 febbraio 2006, Prot n. 107, concernente "Richiesta chiarimenti sulla gratuità dei posteggi delimitati da segnaletica blu a pagamento quando sono occupati da veicoli al servizio delle persone invalide detentrici di speciale contrassegno"

In tale nota ministeriale si legge che “Non vi è dubbio, a parere di questo Ufficio, che non si possa chiedere il pagamento di una tariffa oraria a chi, trovando occupato lo stallo a lui appositamente riservato, ne occupi un altro, peraltro non adeguatamente attrezzato a soddisfare in pieno le sue esigenze, potendosi imputare tale disagio anche ad una mancata previsione, da parte dell’ente proprietario, di un maggior numero di stalli riservati”.

Secondo quanto stabilito dal Ministero, quindi, il parcheggio in posteggi delimitati da segnaletica blu deve essere gratis per chi è munito di contrassegno che prova l'invalidità.

La presente nota era stata già annullata con Sentenza n. 6044 del 25 maggio 2006 del TAR del Lazio (Sezione III ter.

Le conseguenze della sentenza

Gli effetti della decisione presa dai giudici nella sentenza in commento possono ricondursi sostanzialmente e praticamente nel fatto che d’ora in poi non rimarranno più strumenti normativi a tutela dei cittadini portatori di handicap, con invalidità, per invocare la gratuità incondizionata dei parcheggi regolamentati a pagamento.

La gratuità della sosta è consentita solamente nelle aree custodite, ma se i posti riservati sono occupati da altri titolari di contrassegno il pagamento è comunque dovuto.

Rimane, comunque, il fatto che deve essere previsto almeno un parcheggio ogni 50 riservato e gratuito per i soggetti muniti di contrassegno.

Fonte: Altalex, 20 ottobre 2009.
Autore:Manuela Rinaldi
sabato 26 settembre 2009

Brevi considerazioni sul reato di immigrazione clandestina

All'indomani della entrata in vigore della Legge n. 94 del 15 luglio 2009 recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, autorevoli commentatori e soprattutto operatori pratici del diritto hanno manifestato preoccupazione per l'impatto che certe disposizioni potrebbero avere sulla gestione quotidiana del lavoro negli uffici sia di polizia che giudiziari.

In particolare desta sgomento il riflesso che l'applicazione dell'art. 10 bis del D.lgs. 286/98 potrebbe avere sugli uffici del giudice di pace, sulla polizia giudiziaria, sulle Procure della Repubblica e anche sugli ufficiali giudiziari, questi ultimi incaricati di una notevole messe di notificazioni urgenti.

Trattasi infatti di uffici tutti già oberati da carichi di lavoro insostenibili e con organici non in grado sopportare nuovi aggravi se non a prezzo di ulteriori lungaggini che verrebbero puntualmente e giustamente stigmatizzate dall’esterno.

Infatti numerosissimi sono gli stranieri clandestini astrattamente sanzionabili con la citata contravvenzione di competenza del giudice di pace per la quale la legge 94/09 introduce anche un rito speciale caratterizzato da inusitata velocità. Al momento del controllo molti di essi stranieri non esibiscono alcun documento, violando così anche l'art. 6 comma III del D.lgs. 286/98, contravvenzione di competenza del giudice ordinario.

Ne deriva quindi una duplicazione di processi per l'applicazione, in entrambi i casi, di pene veramente irrisorie e spesso ineseguibili, essendo gli stranieri, che incorrono in tali violazioni, notoriamente insolventi e irreperibili.

Tuttavia una lettura attenta delle norme coniugata a quei risvolti di pratica giudiziaria che il legislatore dimostra di conoscere ben poco o di tenere punto in considerazione, può svelare scenari più confortanti o comunque tali da far ritenere meno devastante tale impatto.

A ben vedere, l'art. 10 bis punisce “lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene sul territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico” (D.lgs. 286/98).

La prima condotta (l'ingresso) verrà punita nei casi, piuttosto limitati, in cui il soggetto viene sorpreso nel momento in cui varca la frontiera o, al più, immediatamente dopo. Evidentemente il legislatore, resosi conto che tale evenienza è di difficile verificazione, ha inserito una condotta alternativa (il trattenimento) normalmente di più frequente e più facile riscontro.

Tuttavia la pubblica accusa al fine di provare la responsabilità dello straniero per tale reato, a meno di non volere ipotizzare inammissibili inversioni dell'onere della prova, dovrà dimostrare che lo straniero soggiornava sul nostro territorio da più di otto giorni lavorativi atteso che l'art. 5, comma 2 del D.lgs. 286/98 prevede che il permesso di soggiorno debba essere richiesto entro otto giorni lavorativi dall'ingresso. Del resto lo straniero, ai sensi dell'art. 4 del D.lgs. citato, può entrare nello Stato con il passaporto o documento equipollente e il visto di ingresso rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello stato di origine.

Dunque la prova della durata della permanenza potrà ricavarsi dal visto apposto sul passaporto, ma se lo straniero non lo esibisce tale accertamento non sarà possibile, tuttavia egli dovrà rispondere del reato di cui all'art. 6, comma 3, D.lgs. 286/98.

A questo punto si pone il quesito se il legislatore, laddove nell'art. 10 bis ha richiamato la violazione delle norme del testo unico come presupposto per la configurabilità della contravvenzione prevista dalla norma, abbia inteso riferirsi solo alle norme amministrative che disciplinano l'ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale ovvero anche alle norme di rango penale compreso il menzionato art. 6. Solo in questa seconda ipotesi la mancata esibizione del passaporto integrerebbe anche il reato di cui all'art. 10 bis perché la permanenza illegale si concreterebbe e si dimostrerebbe con il rifiuto di esibire il documento, condotta che integrerebbe violazione del relativo obbligo previsto e punito dall’art. 6. In tal caso però i reati si potrebbero considerare commessi con una sola azione o omissione e perciò in concorso formale ai sensi dell'art. 81 comma 1 c.p., con conseguente attrazione della competenza al giudice ordinario anche per il reato di cui all'art. 10 bis.

Ne deriverebbe pertanto la possibilità di evitare di processare migliaia di stranieri anche davanti al giudice di pace con un rito simile a quello direttissimo che richiede, tra l'altro, un forte impegno di tempo e di professionalità ai corpi di polizia giudiziaria oltre a un notevole esborso di denaro pubblico per sostenere gli oneri del patrocinio a spese dello stato che i difensori puntualmente richiederanno.

E' ben vero che la prova della permanenza da oltre otto giorni nel territorio dello Stato potrebbe scaturire da una precedente fotosegnalazione, da una testimonianza o da una qualsiasi traccia documentale della presenza dello straniero nel nostro territorio, ma è anche vero che non potrebbe escludersi la circostanza che il soggetto sia nel frattempo uscito e di nuovo rientrato nel territorio dello Stato prima della scadenza di quel termine di otto giorni da cui nasce l'obbligo di richiedere il permesso di soggiorno.

Pertanto, anche in tali casi, potrebbe essere richiesta l'archiviazione non essendovi elementi sufficienti a sostenere l'accusa in giudizio.

Infine, è appena il caso di aggiungere che un ulteriore restringimento all’applicazione dell’art. 10 bis è determinato dalla clausola di salvezza ivi contenuta la quale fa sì che detta contravvenzione debba ritenersi assorbita nei più gravi reati apparentemente concorrenti di cui agli artt. 13 comma 13 e 14 commi 5 ter e 5 quater del medesimo testi unico.

Si può dunque concludere che, se tale percorso esegetico fosse sostenibile e quindi venisse condiviso dalla giurisprudenza, i casi di applicazione sia dell'art. 10 bis, sia del rito speciale, dal punto di vista statistico, potrebbero essere meno significativi del previsto e il tributo da pagare alla “propaganda” potrebbe essere meno esoso.
Autore: Massimmo Mannucci
link:http://www.altalex.com/index.php?idnot=47103
martedì 15 settembre 2009

Il caso "Mutu".

Nelle ultime settimane si è molto discusso del "caso Mutu", che merita una analizi delle circostanze e delle ragioni in virtù per le quali è maturata una vicenda di non certo usuale frequenza nel mondo sportivo. Tutto nasce da una grave violazione contrattuale del giocatore nei confronti della società di appartenenza: l'assunzione di sostanze proibite in costanza di rapporto di lavoro. In conseguenza del fatto il Chelsea si è attivato davanti al Collegio arbitrale competente chiedendo e ottenuto la risoluzione del contratto per giusta causa. Ciò ha costituito le premesse per il riconoscimento del risarcimento dei danni. Cercheremo di spiegare i passaggi logico-giuridici della vicenda, in primo luogo esaminando in quale modo si sia arrivati alla determinazione dell'indennizzo, e se si possano rinvenire società calcistiche soldamente responsabili con il calciatore rumeno.

Il TAS nella determinazione dell'importo ha semplicemente individuato tutti i costi sostenuti per l'acquisizione delle prestazioni del calciatore che non risultavano essere ammortizzati al momento dell'interruzione del rapporto. Considerando infatti che nell'agosto del 2003 il calciatore si è trasferito al club londinese per 22,5 milioni di Euro e che lo stesso aveva onorato solo una delle cinque annualità che lo legavano al club, il TAS ha imposto ad Adrian Mutu di pagare una somma superiore ai 18 milioni di euro, dato che ai 17.173.990 Euro, più volte richiamati nelle testate giornalistiche in questi giorni, devono essere aggiunti anche gli interessi e le ulteriori spese processuali. La somma, che a prima vista potrebbe apparire elevata, è comunque da ritenersi proporzionata al valore del calciatore e all'effettivo danno arrecato al Club.



Come è noto la particolarità della fattispecie è che la sentenza, emanata nei confronti del giocatore, che da solo è stato condannato al pagamento di una ingente somma di denaro non abbia coinvolto la responsabilità solidale del club successivo di tesseramento, ma abbia rinvenuto nel solo giocatore rumeno l'unico soggetto passivo dell'obbligazione risarcitoria. Tale elemento differenzia il caso Mutu da altri precedenti dello stesso TAS (ad esempio il caso Matuzalem) ove la sanzione pecuniaria alla quale il giocatore era stato condannato era di poco inferiore ai dodici milioni di Euro, me che non suscitò però lo stesso scalpore, proprio perché accompagnata dalla condanna solidale della società alla quale il calciatore era successivamente pervenuto, il Real Saragozza.



Analizziamo le ragioni per le quali il Chelsea ha agito solo nei confronti del calciatore rumeno senza allargare la controversia né al Livorno o alla Juventus, come da alcuni fatto notare. Anzitutt l'art. 17, par. 2, del Regolamento FIFA sullo Status e trasferimento dei Calciatori, limita la responsabilità solidale alla Società calcistica alla quale il calciatore sia pervenuto dopo l'interruzione del rapporto con la Società di provenienza, quindi unicamente al Livorno, escludendo le società successive, vale a dire Juventus e Fiorentina. Comunque il citato paragrafo è stato inserito fra le norme solo nell'edizione del 2005. Nel caso specifico è risultata applicabile quindi l'edizione precedente del Regolamento, ecco perché il Chelsea ha limitato l'azione al solo Mutu. In linea squisitamente teorica, ai sensi dell'art. 23 del Regolamento del 2001, avrebbe potuto casomai sostenere la responsabilità del Livorno riguardo alla intervenuta interruzione del rapporto di lavoro: in tale disposizione infatti il tentativo di tesserare un calciatore che avesse rescisso unilateralmente un contratto avrebbe potuto essere considerato una induzione alla rescissione del contratto stesso, con conseguente successiva responsabilità della Società stessa: ipotesi però difficile da ritenersi sussistente nel caso Mutu, visto che dal competente Collegio Arbitrale la responsabilità contrattuale era stata ritenuta riferibile esclusivamente al calciatore. Tale strada non sarebbe oggi neanche più percorribile dato che la DRC non può prendere in considerazione ed attivare procedimenti nei due anni successivi al verificarsi dell'evento. E' ovvio come sia oggi decorso ogni relativo termine e che la sentenza sia ormai da ritenersi definitiva in sede sportiva e produttiva di effetti solo tra le parti. C'è poi da domandarsi se il calciatore rumeno possa essere oggi squalificato, ove non provveda a tale pagamento: la risposta non può che essere affermativa. La Commissione disciplinare della FIFA ha infatti la possibilità di escludere dalle partite ufficiali il calciatore stesso. Sul punto esiste, inoltre, il precedente dell'Arges Pitesti. Mutu come "ultima possibilità" potrebbe adcire il Tribunale Federale Svizzero, ma si tratterebbe di un ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria in sede civile, al quale il calciatore dovrebbe essere preventivamente autorizzato dagli organi sportivi sotto pena di severe squalifiche ed ulteriori sanzioni. Insomma, la vicenda, almeno sostanzialmente, sembra destinata a finire qui: c'è da ritenere infatti che la fattispecie non induca più a sconti, riduzioni o economie.


Fonte:Fiorentina.it
Autore:Massimo Mereu (docente del Master "Diritti e Management dello Sport" Università Telematica E-Campus di Noverate) - Guerin Sportivo
sabato 8 agosto 2009

L'Enel s.p.a. è responsabile dei danni arrecati agli utenti a causa del black-out elettrico

Fra le tante sentenze in cui Enel è stata condannata a risarcire i danni provocati dalla mancata somministrazione di energia elettrica dovuta ad un black out, si evidenzia la pronuncia del Giudice di Pace di Casoria con la sentenza n. 2961 depositata il 13 luglio 2005.

L'iter argomentativo della decisione è stato il seguente:

tra il gestore elettrico ed il cittadino sussiste un contratto di somministrazione di tipo continuativo e di consumo avente ad oggetto la fornitura di energia elettrica;
l’avvenuta sospensione della somministrazione dell’energia elettrica integra la mancata esatta esecuzione del contratto di fornitura di energia elettrica, che obbliga la parte inadempiente al risarcimento dei danni;
il gestore peraltro non ha provato che l’inadempimento fosse da ricondurre a causa a lui non imputabile;
dall’accertamento dell’inadempimento contrattuale discende che la parte inadempiente sia tenuta al risarcimento dei danni patiti dalla controparte, dovendosi ritenere che, nel caso di contratto di somministrazione di energia elettrica, per costante dottrina e giurisprudenza, debba ravvisarsi, oltre l’obbligo principale della somministrazione anche quella accessoria derivante dal c.d. impegno di potenza, cioè quella prestazione continua, accessoria e strumentale a quella principale della fornitura, e si sostanzia in una nell’obbligo del somministrante di predisporre e mantenere l’impianto in modo da tenere a disposizione dell’utente una determinata quantità di energia, a cui corrisponde un corrispettivo fisso, da parte dell’utente, da pagarsi periodicamente e che viene a maturare contemporaneamente al consumo di energia;
il risarcimento, da liquidarsi in via equitativa, comprende il danno patrimoniale, determinato dall'avaria di alcuni dei cibi che costituiscono le normali scorte alimentari di una famiglia e che necessitano di costante refrigerazione come latte, carne, burro, generi congelati, ed il danno esistenziale, derivante dalla rinuncia dell’utente di tutte o molte di quelle attività, ricreazione e svago che costituiscono la normale aspettativa di ogni essere umano nel giorno di riposo.
venerdì 10 luglio 2009

L’assegnazione della casa coniugale in caso di separazione

Il diritto dell’assegnatario di un’abitazione già adibita a casa coniugale, si configura come un atipico diritto personale di godimento, trascrivibile e opponibile a terzi ai sensi dell'articolo 2643 del codice civile.

Con riferimento all’assegnazione della casa coniugale in caso di separazione o divorzio il nuovo testo dell’articolo 155-quater. del codice civile dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli.

La norma contempla esclusivamente il criterio d’elezione che deve ispirare l’organo giudicante al momento dell’emissione del provvedimento di assegnazione ma non indica quali sono i criteri secondari sulla base dei quali deve essere orientata la scelta in caso di assenza di prole. Tale omissione, forse scientemente voluta dal legislatore, lascia ovviamente alle Corti di merito un vasto margine di discrezionalità relativamente all’assegnazione della casa coniugale.

E’ lapalissiano che il Giudice nel valutare a quale dei coniugi assegnare la casa coniugale, debba necessariamente valutare l’esistenza di diritti e titoli sull’immobile in capo ai coniugi. Qualora uno dei coniugi risulti essere proprietario esclusivo dell’immobile e non vi sono figli conviventi, la scelta del giudice sarà presumibilmente orientata verso l’assegnazione della casa al coniuge proprietario o che vanta sull’immobile un diritto reale di godimento esclusivo. L’eccezione potrà essere rappresentata, a giudizio dello scrivente, da situazioni eccezionali, quali gravi patologie a carico del coniuge non proprietario, il quale necessiti di assidue cure domiciliari e che non sia in condizioni di poter lasciare l’immobile senza gravi pregiudizi per il proprio stato di salute (coesisterebbero in tal caso due diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto alla salute ed il diritto di proprietà e restando quest’ultimo intatto in capo al detentore di tale diritto, ben potrebbe ipotizzarsi una limitazione temporanea nell’esercizio del diritto di proprietà per favorire l’esercizio di un altro diritto costituzionalmente garantito quale il diritto alla salute).

In assenza di ipotesi eccezionali l’assegnazione della casa risulterà essere a favore del coniuge proprietario o che vanta diritto reale o personale di godimento e addirittura qualora il Giudice nel provvedimento di divorzio non faccia cenno alcuno all’assegnazione dell’abitazione, l’utilizzo esclusivo della stessa risulterà essere automaticamente a favore del soggetto proprietario esclusivo.

A tal proposito la Corte di Appello di Roma con sentenza del 26 Gennaio 2005 ha sancito che in assenza di prole minore o maggiorenne non ancora economicamente autonoma da tutelare a mezzo della corresponsione del domicilio familiare, il giudice non è tenuto a disporre in ordine all'assegnazione dell'immobile che rientra naturalmente nella disponibilità del proprietario. Pertanto deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere sul capo relativo all'assegnazione della casa coniugale (vedi anche Cass. Civ. 4753 del 28 marzo 2003 e Cass. Civ. 2214 del 14 febbraio 2003).

L’assegnazione della casa coniugale non rappresenta infatti una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio o un modo per realizzare in mantenimento del coniuge più debole ma in via prioritaria un provvedimento diretto alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni conviventi e non autosufficienti affinché questi possano continuare a vivere nell’ambiente domestico e nell’habitat in cui sono cresciuti e cioè il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si è fino a quel momento espressa e articolata la vita familiare.

Anche la Suprema Corte con sentenza n. 12309 del 06.07.2004 ha statuito che” In materia di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall'art. 6, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (come sostituito dall'art. 11 della legge n. 74 del 1987), risulta finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell'interesse di questa a permanere nell'ambiente domestico in cui è cresciuta, non potendo essere disposta, a mo' di componente degli assegni rispettivamente previsti dall'art. 156 c.c. e dall'art. 5 della legge n. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati, onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata all'imprescindibile presupposto dell'affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ed economicamente non autosufficienti, laddove, nell'ipotesi in cui l'alloggio "de quo" appartenga in proprietà ad uno solo dei coniugi e manchino figli in possesso dei requisiti anzidetti, il titolo di proprietà vantato da quest'ultimo preclude ogni eventuale assegnazione dell'immobile all'altro, rendendo poi ridondante e superflua ogni e qualsivoglia pronuncia di assegnazione in favore del coniuge proprietario”.


Id est risulta chiaro come il legislatore prima e la giurisprudenza dopo abbiano inteso attribuire al provvedimento di assegnazione una natura prevalentemente conservativa dell’ambiente domestico a favore dei figli e non già un'impropria finalità di forma di contribuzione economica, in quanto quest’ultima deve realizzarsi esclusivamente mediante la corresponsione di un assegno periodico o una tantum.

E’ comunque chiaro come la concessione del beneficio dell’uso della casa coniugale comporti indubbi vantaggi economici, specie in considerazione del risparmio monetario a favore del coniuge assegnatario. L’assegnazione si ripercuote pertanto necessariamente sull’equilibrio patrimoniale tra i coniugi determinando un arricchimento del coniuge assegnatario, rappresentato dal risparmio relativo all’acquisto o all’affitto di un’altra casa, ed un impoverimento del coniuge non assegnatario, rappresentato dal costo per l’acquisto o per la locazione di una nuova abitazione.

Nonostante l’assegnazione della casa coniugale non integri una componente diretta delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio,o una forma surrettizia di contribuzione economica, alla Giurisprudenza non è certo sfuggita ogni opportuna considerazione circa i vantaggi economici, derivanti al coniuge assegnatario.


E’ opportuno rilevare come la lettera dell’articolo 155 quater del codice civile in riferimento all’assegnazione della casa coniugale, consideri come elemento non esclusivo ma solo prioritario per effettuare la scelta, l’interesse dei figli.

Questo significa che pur essendovi un criterio di “scelta”, tuttavia, il Giudice non è obbligato a disporre l'assegnazione al coniuge economicamente più debole (che non vanti sulla stessa diritti reali o di godimento), neanche se ad egli siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l'equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti. (Con sentenza n. 9071 del 21.06.2001 la S.C. ha cassato una sentenza che aveva sostenuto la decisione unicamente sulla necessità di garantire l'esigenza del figlio maggiorenne, incolpevolmente non autosufficiente, a permanere nell'abitazione originaria, insieme con il padre non proprietario della casa).

Ancora la Corte di Cassazione con sentenza n. 376 del 15.01.1999 ha stabilito che non esiste alcun obbligo a carico del Giudice di assegnare la casa coniugale al coniuge economicamente più debole, neanche se a lui siano affidati figli minori o con lui convivano figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, qualora l'equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela di quello più debole possano essere perseguiti altrimenti (Cass. Civ. n. 376 del 15.01.1999).


In quest’ultimo caso la Corte (pur sotto la vigenza della vecchia normativa), si è spinta sino ad escludere qualsiasi riferimento all’interesse dei figli in ordine all’assegnazione della casa coniugale ponendo l’accento esclusivamente sul diritto di proprietà e sulle condizioni economiche delle parti e sulla tutela del coniuge debole.

Il corollario del suddetto principio è rappresentato dall’obbligo da parte del giudice di indicare, valutare e motivare le ragioni che, nell'esclusivo interesse della prole, lo inducano ad assegnare la casa familiare al coniuge con il quale la prole conviva, e tale obbligo assume sempre maggiore rigore, via via che aumenti l'età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di conservazione dell'ambiente familiare (Cass. Civ. n. 10797 del 29 ottobre 1998). Tale obbligo di motivazione assume infatti dimensioni di sempre maggiore puntualità ed aderenza alla fattispecie concreta, con l’aumentare l'età della prole, riducendosi con il passare degli anni la necessità di tale conservazione dell'habitat, con attenuazione del disagio psichico e materiale che si accompagna al mutamento dell'abitazione.


Solo qualora vi sia una situazione di cointestazione dell’immobile e non vi siano figli minori o maggiorenni conviventi, la valutazione delle condizioni economiche dei coniugi sarà presupposto prioritario ai fini dell'assegnazione della casa coniugale.

Cosi la Corte di Cassazione in sentenza n. 2070 del 23.02.2000: “Nell'ipotesi in cui la casa familiare appartenga ad entrambi i coniugi, manchino figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti conviventi con uno dei genitori, ed entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l'esercizio del potere discrezionale del giudice non può trovare altra giustificazione se non quella di, in presenza di una sostanziale parità di diritti, favorire quello dei coniugi che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio: da ciò consegue che, laddove entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice dovrà respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo, lasciandone la disciplina agli accordi tra i comproprietari, i quali, ove non riescano a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, restano liberi di chiedere la divisione dell'immobile e lo scioglimento della comunione. Ne consegue anche che, venuta meno la situazione che giustificava la temporanea compressione del diritto di comproprietà dell'ex coniuge non assegnatario, questi non può per ciò solo vantare alcun diritto al godimento esclusivo dell'abitazione della quale è mero comproprietario ma deve, in mancanza di accordo con l'ex coniuge assegnatario, proporre una domanda di divisione per lo scioglimento della comunione”.

Ciò sta a significare che l’assegnazione della casa coniugale cointestata, in presenza di un disequilibrio economico tra le parti, avrà come fine quello di riequilibrare le rispettive posizioni economiche, ma nel caso in cui non vi sia un coniuge economicamente più debole, e non vi siano figli minorenni o maggiorenni conviventi, non esisterà alcun criterio per poter disporre l’assegnazione ad un coniuge piuttosto che ad un altro e questo perché non vi è alcuna prevalenza di un diritto dell’uno su quello dell’altro bensì una condizione di esatta equivalenza tra i diritti in questione; entrambi i coniugi infatti risultano titolari di un diritto costituzionalmente garantito quale il diritto di proprietà e nessuno dei due si trova in una situazione di svantaggio economico tale da determinare in capo al soggetto più debole il sorgere di un diritto al mantenimento.

In modo difforme si è invece espressa la Suprema Corte con sentenza n. 11696/2001 affermando che in materia di divorzio, l'assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla protezione della prole, e non è prevista in funzione della debolezza economica di uno dei coniugi, alle cui esigenze è destinato l'assegno divorzile. Ne consegue che il giudice non potrebbe, in assenza di figli conviventi, assegnare la casa coniugale, della quale i coniugi siano comproprietari, a quello fra i due che ritenga economicamente più debole, onde sopperire a tale squilibrio.

A parere di scrive, questo criterio deve ad oggi essere considerato come completamento superato in virtù del nuovo testo dell’articolo 155 del codice civile il quale ribadisce espressamente che il criterio prioritario per disporre l’assegnazione è quello della tutela della prole; il che significa che accanto ad un criterio “prioritario” ben possono coesistere altri criteri da adottare in via subordinata specie quando non vi sono figli minori o maggiorenni conviventi.

Questo sta a significare che ai fini dell'assegnazione della casa sulla quale entrambi i coniugi vantino diritti di proprietà, il giudice potrà anche tenere conto delle condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione a favorire il coniuge più debole, ed in caso di assenza di figli minori o conviventi potrà valutare anche le ulteriori finalità volte a consentire un certo equilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi ed al tempo stesso ad assicurare una soluzione sostanzialmente equa, in quanto correlata alle ragioni della decisione, nonché a favorire il coniuge più debole.

Tuttavia, come opportunamente osservato dalla Corte di Cassazione (12428/1991) il giudice non può disporre l'assegnazione a favore del soggetto non titolare del diritto di proprietà o godimento, ove questi non abbia la qualità di assegnatario di figli minori o di convivente con i figli maggiori (non autonomi), atteso che la norma citata, di natura eccezionale, si fonda essenzialmente sulla necessità di conservare l'habitat domestico (inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita della famiglia).

Come testé affermato qualora il Giudice nulla disponga in ordine all’assegnazione, l’utilizzo della casa coniugale spetterà automaticamente ed esclusivamente al coniuge esclusivo proprietario.


Rileviamo infine come ai sensi del nuovo testo dell’articolo 155 del codice civile, il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso in cui l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga un nuovo matrimonio.
Autore: Matteo Santini
link:http://www.altalex.com/index.php?idnot=735
sabato 27 giugno 2009

Ergastolo per nove ex Ss. Strage di Fivizzano, la Germania deve risarcire

Dopo 65 anni giustizia è stata fatta: il Tribunale militare di Roma ha emesso ieri la sentenza di condanna all’ergastolo per nove degli undici ex militari nazisti responsabili delle stragi avvenute nel territorio fivizzanese, così come ha ritenuto responsabile civile la Repubblica Federale di Germania dei fatti commessi dai suoi soldati nella seconda guerra mondiale.
Sia gli ex militari condannati che la Germania quindi sono chiamati a risarcire i danni morali e materiali subiti dai famigliari delle vittime e indennizzare anche i Comuni di Fivizzano e Fosdinovo, costituitisi parti civili.
Degli undici imputati, tutti ultra 80enni, nove, che non erano presenti in aula, sono stati riconosciuti colpevoli per le stragi avvenute a San Terenzo Monti, Vinca, Tenerano e Gragnola, mentre uno Max Roithmeier 86 anni, ex sergente delle SS, è morto recentemente e un altro, Walter Waage, è stato assolto per non aver commesso il fatto in quanto era stato ferito precedentemente ai fatti contestati.
Erano accusati dei terribili avvenimenti accaduti tra il 19 e il 27 agosto del 1944. All’ergastolo sono stati condannati dal tribunale militare Paul Albers, Josef Baumann, Hubert Bichler, Ernst Kusterer, Arnold Rosler, Adolf Schneider, Mx Schneider, Heinz Fritz Trager e Helmut Wulf: il più «giovane» ha 84 anni, il più anziano 90.
Il tribunale ha condannato la Germania, in qualità di responsabile civile, in solido con gli imputati, al risarcimento dei danni nei confronti dei comuni di Fivizzano e di Fosdinovo e di una cinquantina di parenti delle vittime, che si sono costituiti parte civile.
L’ammontare verrà definito in sede civile, ma intanto è stata stabilita una provvisionale di un milione e 250 mila euro.
Fonte:il tirreno del 27.06.09
venerdì 26 giugno 2009

Processo civile, al via la riforma.Molte disposizioni in vigore dal 4 luglio prossimo

In Gazzetta Ufficiale la legge 69/2009.
Riforma del processo civile in vigore da subito per le cause nuove. Non è prevista vacatio legis e quindi avvocati e giudici potranno applicare le novità normative dal 4 luglio prossimo. La legge sullo sviluppo economico, la competitività, la semplificazione normativa e appunto la riforma del processo civile è stata pubblicata ieri (legge 18 giugno 2009, n. 69) sul supplemento ordinario n. 95/L alla Gazzetta Ufficiale n. 140. La legge licenziata da palazzo Madama, dopo un lungo iter di ben quattro letture, introduce la testimonianza scritta, il calendario del processo, deleghe al governo per la riforma del processo amministrativo, per la riduzione dei riti civili, per il rilancio della conciliazione.
Previste inoltre una serie di novità sia per il processo di cognizione sia per il processo di esecuzione, che devono essere studiate da subito da parte degli operatori del settore stante appunto l'imminente entrata in vigore (15 giorni dopo la pubblicazione). Si potranno usare da subito le testimonianze scritte e anche il rito sommario di cognizione e conteranno da subito i nuovi limiti della competenza (aumentata dei giudici di pace). Solo per alcuni istituti è previsto una applicazione anche alle cause in corso. Si tratta di un alleggerimento del contenuto delle sentenze (niente più necessaria ricostruzione, seppure sintetica, dello svolgimento del processo e possibilità di formulare la motivazione con il richiamo a precedenti conformi), della preclusioni di produzioni documentali in appello e della impugnabilità delle sentenze emesse al termine dei giudizi di cognizione in sede di opposizione a procedimenti esecutivi. Il tanto discusso filtro ai ricorsi in Cassazione si applica ai provvedimenti successivi all'entrata in vigore della legge e quindi, anche qui, senza una vacatio legis. Chi deve iniziare un giudizio, ovviamente dopo l'entrata in vigore della legge, deve, quindi, preoccuparsi delle novità per identificare quale sia il giudice competente e quale sia il rito applicabile. A proposito della individuazione del giudice si deve tenere conto della aumentata competenza del giudice di pace (fino a 5 mila di valore del giudizio, e fino a 20 mila per i sinistri); in ogni caso l'avvocato deve fare attenzione a come scrive l'atto di citazione, in quanto deve modificare la formula di avviso a controparte su preclusioni e decadenze (articolo 167 codice di procedura riformulato: bisogna dare avviso delle novità sull'eccezione di incompetenza del giudice); e comunque bisogna capire che rito si applica: il rito societario è stato abrogato; ed è anche stato abrogato il rito del lavoro per i sinistri stradali. L'avvocato deve anche considerare se attivare il nuovo processo sommario di cognizione: valutarne la praticabilità e la convenienza. Le scelte processuali devono tenere conto del nuovo regime dell'attribuzione delle spese di soccombenza anche alla parte vincitrice che ha rifiutato una ragionevole proposta di accordo bonario. In ogni processo nuovo parte la calendarizzazione del giudizio e le parti potranno avere un'idea di quanto dura il processo. Anche per le prove cambiano molte cose: l'avvocato deve tenere conto della possibilità di acquisire testimonianze scritte e quindi dovrà decidere se prestare o meno il consenso a questa modalità. La riforma, peraltro, non tocca solo il giudizio civile, ma anche quello amministrativo (perenzione dei ricorsi pendenti o da oltre cinque anni) e quello avanti alla Corte dei conti (calendario del processo). Fonte: Italia Oggi del 26.06.09
Autori: Antonio Ciccia e Giovanni Galli
mercoledì 17 giugno 2009

La testimonianza scritta nel processo cvile, un nuovo strumento semplificatore da accogliere in positivo.

Approvata in via definitiva dal Senato, la nuova Riforma del Processo Civile è divenuta ormai operativa. Si tratta dell’ennesimo intervento del legislatore che nell’intento del ministro Alfano, dovrà semplificare e accelerare i tempi della definizione delle cause. È infatti sotto gli occhi di tutti come la Giustizia Italiana vive ormai da molto tempo in uno stato di quasi paralisi. Da una recente indagine, in termini di efficienza della Giustizia, l’Italia è risultata al pari di qualche Stato africano e ovviamente ultima in Europa. Basti pensare che la definizione di un Giudizio civile sino alla Corte di Cassazione, implica una attesa di ben oltre 10 anni. È evidente che una situazione di questo tipo si riflette negativamente sulla economia del Paese, scoraggiando anche gli investitori stranieri i quali preferiscono Nazioni che sono in condizione di assicurare un più efficiente e maggiore rispetto dei diritti. Infatti è innegabile che da un diritto negato scaturisce nella collettività un senso di sfiducia nella Giustizia e di chi la rappresenta con tutte le conseguenze negative e deleterie che ne conseguono. Alla luce di queste doverose premesse, il Ministro Alfano ha avviato la nuova riforma del processo civile con l’intento di restituire efficienza e funzionalità alla Giustizia Civile. Si deve tuttavia aggiungere che come ormai universalmente riconosciuto, anche dallo stesso Ministro, ormai è indiscutibile la necessità, invocata da anni dalla Unione delle Camere Civili di proseguire in modo definitivo sulla strada della unificazione dei riti, con la previsione di un rito unico che si dovrà concentrare in poche udienze. Infatti ad oggi il nostro Ordinamento vanta il nefasto primato di ben 27 tra riti e modelli processuali, dai quali conseguono eccessi di formalismo che inevitabilmente contribuiscono a ritardare i tempi della Giustizia. Veniamo a questo punto ad analizzare le più salienti modifiche al processo civile introdotte con la nuova riforma. La previsione decisamente innovativa è la cd. “Testimonianza scritta”. secondo il testo normativo ora in vigore: «Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice, con il provvedimento di cui al primo comma, dispone che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone. Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Quando il testimone si avvale della facoltà d’astensione di cui all’articolo 249, ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione. Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all’articolo 255, primo comma. Quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma. Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato». La previsione normativa introdotta, recependo le istanze dell’Avvocatura, ha previsto che il Giudice dispone la testimonianza scritta “su accordo delle parti”. In tal modo, considerato che le parti debbono dare il loro preventivo consenso, si tende a non violare il principio fondamentale del contraddittorio a cui si ispira il processo. Infatti è la parte che con il suo indispensabile consenso può utilizzare uno strumento processuale necessario alla istruzione probatoria della causa e che non potrebbe essere assunto in altro modo. Pertanto si tratta di uno strumento processuale che è stato introdotto il cui utilizzo viene affidato alla preventiva manifestazione di volontà delle parti. Volendo azzardare una previsione, è facile presumere che siffatta formulazione limiterà l’uso della testimonianza scritta solo in casi eccezionali, soprattutto quando sarà limitata a confermare dei documenti di spesa che comunque le parti avranno l’onere di depositare entro i termini perentori già previsti. Tuttavia si deve riconoscere che la “Testimonianza Scritta” è una previsione normativa che introduce un nuovo mezzo di istruzione probatoria di cui le parti possono avvalersi esprimendo il loro assenso, semplificando in detti casi il processo, resta comunque inteso che qualora una parte non intenda dare il suo consenso, la testimonianza scritta non potrà esperirsi. Pertanto sotto questo aspetto non può che esprimersi favore verso la introduzione della possibilità di utilizzare un nuovo strumento processuale per giungere alla definizione del Giudizio. In merito alle modalità di attuazione della “Testimonianza scritta”, il Giudice con l’ordinanza con la quale ammette la prova, dispone che il testimone fornisca per iscritto le risposte alle domande sulle quali sarà interrogato e fissa un termine entro il quale la testimonianza scritta dovrà pervenire. Il Giudice, con la medesima ordinanza deve inoltre disporre che la parte che ha fatto l’istanza della prova, rediga il modello di testimonianza in cui si dovrà trascrivere pedissequamente i capitoli ammessi. Detto modello di testimonianza dovrà quindi essere notificato al teste a cura della parte che ha chiesto la testimonianza. Anche se la norma non lo prevede esplicitamente, tuttavia è opportuno che il Giudice nella sua ordinanza, indichi anche il termine entro il quale il modello di testimonianza debba essere notificato al teste. Al fine di rendere al teste chiaro il suo impegno sarà opportuno riprodurre nel modello di testimonianza, prima della trascrizione dei quesiti ammessi, anche il testo della ordinanza del Giudice con i termini indicati dal medesimo. Il testimone dovrà quindi rispondere ai quesiti contenuti nel modello di testimonianza che dovrà essere compilato, precisando quali sono i quesiti a cui non può rispondere indicandone i motivi. Per consentire al teste una adeguata compilazione delle sue risposte sarà quindi conveniente predisporre un ragionevole spazio tra i vari quesiti riportati nel modello di testimonianza. Secondo la previsione normativa, il testimone dovrà fare autenticare da parte di un pubblico ufficiale o Notaio la sua firma su ogni facciata del foglio, a tale proposito sarà utile precisare nel modulo di testimonianza che la firma dovrà essere autenticata. L’autentica della firma è una incombenza che secondo il testo in vigore, viene attribuita al teste, anche da un punto di vista dell’esborso economico e ciò mal si concilia con il carattere gratuito della prova testimoniale, pertanto si può prevedere che il teste possa chiedere al Giudice la rifusione delle spese sostenute per i suoi adempimenti. Il teste dovrà quindi provvedere a spedire il tutto con plico raccomandato o consegnarlo entro il termine fissato dal Giudice alla Cancelleria. Nel solo caso in cui la testimonianza scritta ha per oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti entro i termini perentori, la dichiarazione sottoscritta dal teste sarà trasmessa al difensore della parte che ha richiesto detta prova, senza l’adozione di ulteriori formalità. Infine si precisa che il Giudice in base al principio secondo il quale è il responsabile dello svolgimento del processo, potrà sempre disporre che nonostante tutto il teste sia chiamato a deporre davanti a lui. La testimonianza scritta, come anche altre previsioni normative introdotte con la riforma, quali la previsione della informatizzazione del processo, tendono a percorrere la strada della semplificazione del processo, anche se si deve osservare che le modifiche adottate difficilmente avranno l’effetto di abbreviare i tempi della Giustizia. A tale proposito dobbiamo ribadire che la vera riforma del processo civile sarà attuata solo con la definitiva abolizione della moltitudine dei riti processuali che ingolfano irreparabilmente il nostro sistema.
Autore:Pietro Porri - *Segretario dell’Unione nazionale delle camere civili
Link:http://www.oua.it/rassegna/archivio/0509/new.asp?id=171
giovedì 11 giugno 2009

Guida in stato di ebbrezza e utilizzabilità processuale dei prelievi ematici: il caso "Ahmetovic"

Il giudice di legittimità, con la sentenza in esame, ribadisce ed energicamente riafferma un principio di diritto, ormai incontroverso, in materia di utilizzabilità processuale di quei prelievi ematici, che vengano – poi – a formare piattaforma valutativa per accertare giudiziariamente lo stato di intossicazione alcoolemica del singolo, in relazione all'accertamento della sussistenza del reato di guida in stato di ebbrezza.
Dinanzi al dubbio prospettato in relazione all’invocabilità ed all'applicabilità, nella fattispecie in disamina, della disposizione contenuta nell’art. 191 c.p.p., in virtù della ipotizzata lesione del diritto di inviolabilità della persona, garantito dall’art. 13 Cost., atteso che il prelievo ematico sarebbe stato operato in assenza di consenso, anche se nell'ambito di un protocollo medico di pronto soccorso e, dunque, reso necessario ai fini sanitari, la Suprema Corte oppone – in modo coerente e convincente – un fermo e condivisibile diniego.
Il thema decidendum affrontato dal Collegio, nella sentenza in commento, propone, infatti, due ipotesi fattuali che pur presentando profili e denominatori comuni, risultano, tra loro, sostanzialmente differenti nei presupposti che le caratterizzano.
Da un lato, si evidenzia il caso in cui il prelievo ematico sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, ed scopi prognostico-curativi, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di un incidente stradale.
Data questa situazione, gli esiti dell’accertamento così svolto (seppure con finalità distinte e per nulla confondibili con quelle giudiziarie) appaiono certamente utilizzabili in sede processuale, onde procedere – o meno - alla contestazione del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza.
Va, infatti, sottolineato come si tratti di elementi di prova legittimi.
Essi risultano, indubitabilmente, acquisiti secondo modalità del tutto conformi al modello legale sancito dagli artt. 187, 188 e 189 c.p.p., attraverso la documentazione e certificazione medica che li concerne, e che fa piena prova fina a querela di falso del proprio contenuto.
Resta irrilevante, pertanto, in questo contesto, il requisito della mancanza del consenso della persona, nei cui confronti venga operato l’esame.
Siamo, dunque, dinanzi ad una verifica di natura scientifica, la quale trova concreta legittimazione in un’attività di prelievo, che risponde a finalità strettamente sanitarie e, comune, tali costituenti atti dovuti.
Dall’altro, ed a contrario, si apprezza l'ipotesi di prelievo di materiale ematico effettuato in assenza di manifestazione del consenso dell’interessato ed al di fuori dall'ambito di un protocollo medico di pronto soccorso; esso, pertanto, non appare etiologicamente teso al raggiungimento di fini sanitari.
In relazione a questo particolare caso, la Corte precisa come vada dichiarata la inutilizzabilità dei risultati ottenuti, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto dagli artt. 191 c.p.p. e 13 Cost..
Il presunto elemento di prova, infatti, non potrebbe avere accesso al complesso del materiale processuale, perchè esso concernerebbe il risultato di un’attività di acquisizione operata in palese violazione del diritto della persona ad opporsi all’espletamento di pratiche sanitarie (a fini giudiziari) invasive.
La ratio dell’accertamento si rinverrebbe, infatti, in questa ipotesi, nella esclusiva volontà dell’organo inquirente di assumere elementi idonei a provare in giudizio la colpevolezza del soggetto, tramite la dimostrazione del di lui stato di ebbrezza.
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Così come impostata e ripercorsa, dunque, la questione trattata dal Supremo Collegio non lascia spazio a minimi dubbi ermeneutici, né può giustificare interpretazioni equivoche, posto che la architettura giurisprudenziale che connota la sentenza in commento si rifà, nella sua reiterazione e persistenza (cfr. ex plurimis Cassazione Sezione IV 2 ottobre 2003, n. 37442)1, all’ormai invalso insegnamento che – come detto in precedenza – opera una rigorosa distinzione fra l’ipotesi di utilizzabilità del dato scientifico e quella di non utilizzabilità dello stesso.
Ciò che maggiormente, però, rileva è – a ben guardare – la circostanza che l’applicabilità e la pertinenza del disposto dell’art. 191 c.p.p. (vale a dire la declaratoria di inutilizzabilità del prelievo ematico effettuato al di fuori si strette finalità mediche o sanitarie) trae decisivo fondamento giuridico, in relazione alla tematica in disamina, da una pronunzia della Corte costituzionale la sentenza n. 238 del 19962.
Pur trattandosi, infatti, di una decisione che avente riguardo la norma afferente i poteri del giudice in materia di perizia (art. 224 c.p.p.), la presa di posizione della Corte Costituzionale produsse, comunque, tutta una serie di effetti in punto di diritto che non rimasero circoscritti allo spettro tipicamente codici stico.
Va detto, preliminarmente ad ogni altra osservazione, che all’atto di questa pronunzia, il Giudice delle leggi – accogliendo, quindi, lo specifico incidente di legittimità costituzionale dell’art. 224 co. 2 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 13 Cost. – sentì la necessità si operare due importanti precisazioni.
In primo luogo, la Corte precisò che l’incostituzionalità della norma codicistica accusata, doveva ravvisarsi in relazione alla circostanza che essa consentiva l’adozione di misure restrittive della libertà personale finalizzate alla esecuzione della perizia, ed in particolare il prelievo ematico coattivo, senza determinare la tipologia delle misure esperibili e senza precisare i casi ed i modi in cui esse possono essere adottate.
Ergo, appare evidente che il conflitto formale fra legge processuale e legge costituzionale, casus belli per la emanazione della ricordata decisione, venne cagionato esclusivamente dal rilievo di una patente carenza strutturale della norma ordinaria.
Fu, infatti, agevole per il giudice delle leggi constatare l’assenza di tutta una serie di necessari, quanto espressi, riferimenti e specificazioni di sistema in ordine alla procedura da adottare in ipotesi di rifiuto della persona a soggiacere al controllo coattivo.
Il secondo comma dell’art. 224 c.p.p. recitava, infatti, testualmente : “(il giudice)…Adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l’esecuzioni delle operazioni peritali”.
Veniva introdotta, dunque, nella struttura dei poteri del giudice in tema di perizia, una previsione assolutamente generica ed aspecifica.
In secondo luogo, la sentenza 238/1996 fornì un’indicazione, che si pose a mezza via fra l’auspicio e la esortazione, posto che venne proposta ferma sollecitazione al legislatore, affinchè questi intervenisse ad individuare i tipi di misure restrittive della libertà personale che possono dal giudice essere disposte allo scopo di consentire (anche contro la volontà della persona assoggettata all'esame) l'espletamento della perizia ritenuta necessaria ai fini processuali, nonché a precisare i casi ed i modi in cui le stesse possono essere adottate.
L’assenza di un intervento di tale tipo e spessore, affermava la Corte Costituzionale, avrebbe comportato la conseguenza che nessun provvedimento coattivo avrebbe mai potuto essere disposto a copertura del diniego della parte.
Da quanto sin qui premesso, emerge, pertanto, la considerazione (tanto ovvia, quanto necessaria) che il problema della individuazione dei profili di legittimità delle forme di acquisizione della prova – ad esempio attraverso il prelievo ematico – nonchè dei potenziali, correlativi, poteri coercitivi attribuibili al giudice, per ovviare all’ipotesi di impossibilità di spontaneo adempimento da parte di uno dei soggetti processuali agli oneri ad essa connessi, dunque, ha costituito tematica, sin da tale epoca, particolarmente sentita in ambito giurisprudenziale più che legislativo.
Queste conclusioni, orientano l’interprete a considerare negativamente e, gioco forza, a criticare, quindi, la perdurante e grave inerzia del legislatore, il quale, in presenza della costruttiva caducazione dell'art. 224 co. 2° c.p.p. (soluzione inevitabile in presenza della conclamata genericità della previsione oggetto di comparazione costituzionale) non ha, in tutti questi anni, affatto e colpevolmente, sentito la necessità di regolamentare organicamente il sistema degli eventuali provvedimenti di sostegno ed, eventuale, di esecuzione coattiva.
Vertendo in ambito di misure coercitive atipiche (e comunque di strumenti parzialmente coattivi, destinati a perseguire fini differenti rispetto alle misure cautelari propriamente dette) si deve, inoltre, sottolineare come sarebbe stato (e come, comunque, sia tuttora) agevole, per il Parlamento, concepire e predisporre una disposizione in grado di informarsi ai precetti indicati dalla Corte Costituzionale.
Il Collegio, infatti, ebbe a denunziare, in capo alla struttura della norma giudicata incostituzionale, la assoluta mancanza <>.
La scoperta di un simile deficit di metodo e di principio, ancorchè attribuito ad una disposizione a forte connotato procedimentale penale, non poteva non implicare, però, sicuri e diffusi effetti anche sulla normativa del Codice della Strada, nella parte in cui si impone la necessità di una regolamentazione casistica delle modalità e possibilità di assunzione di elementi di prova, (consistenti in accertamenti per loro intrinseca natura irripetibili), che debbano venire svolte, comunque proprio per la loro intrinseca importanza e decisività, anche prescindendo dall’adesione della parte.
Sono questi, intuitivamente, attività investigative che possono riguardare situazioni, persone e/o cose, suscettibili di modifica ed alterabilità.
Non è, quindi, revocabile in dubbio la circostanza che il principio di integrazione legislativa – auspicato dalla Corte e rimasto ad oggi lettera morta – avrebbe potuto fungere, quantomeno, da categoria ermeneutica dalla quale desumere linee guida applicative anche e sopratutto per un corretto espletamento dell'accertamento ematico, anche in situazioni di diniego.
Va, inoltre, osservato, che il vuoto normativo, cui si è fatta reiterata menzione, si pone in intima ed irreversibile contraddizione con la specifica previsione – peraltro, circoscritta a determinate situazioni - integrata all'interno degli artt. 186 e 187 CdS.
Queste due norme, operando specificamente il bilanciamento tra l'esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale, prevedono in entrambi i casi (guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di stupefacenti) la possibilità del rifiuto dell'accertamento richiesto, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità del conducente ad offrirsi e cooperare all'acquisizione probatoria.
Il dato saliente è, dunque, quello per cui la citata previsione legislativa, al contempo, pur riconoscendo la facoltà del singolo di rifiutare la sottoposizione all'esame etilometrico od all'esame dei liquidi biologici, correda e caratterizza tale opzione con una presunzione iuris tantum di illiceità, (la quale, per la propria natura, può essere vinta da una specifica prova liberatoria contraria).
Quella richiamata, costituisce – quindi - una disciplina normativa che risponde efficacemente alla necessità di una previsione che risulti improntata ad un carattere rigorosamente dettagliato, perché ricusa forme di genericità e di indeterminatezza.
E’ importante, inoltre, osservare che, nella fattispecie che si ricorda ad esempio, il legislatore non ha affatto ritenuto di dovere perseguire la via della imposizione coattiva dell'accertamento, attraverso il ricorso alla predisposizione preventiva di misure cautelari ad hoc, cioè di strumenti specifici cui ricorrere in ipotesi di rifiuto del singolo (strada adottata, invece, ad esempio nei casi di mancata presentazione di testi – art. 133 c.p.p. - o imputati di reato connesso – art. 210 c.p.p.).
Gli artt. 186 e 187, infatti, prevedono il ricorso ad una preventivo disconoscimento sul piano strettamente giuridico, della liceità del rifiuto che la parte è facultizzata ad opporre.
Questo comportamento ha rilievo solo sul piano gnoseologico e viene, dunque, classificato come manifestazione di una facoltà (attribuita all'interessato e, comunque, non vietabile sul piano naturalistico) che, però, non risulta affatto meritevole – ab origine ed in linea teorica – di tutela giuridica e giudiziaria.
La condotta omissiva in questione viene, infatti, considerata (in via presuntiva) indubbia espressione indicativa e sintomatica di una volontà della persona di eludere un legittimo controllo di polizia giudiziaria, idoneo a raccogliere elementi di prova dell’esistenza e commissione di un reato.
Come tale, essa, siccome illecita, risulta foriera, automaticamente, di un trattamento sanzionatorio.
Or bene, la ricordata impostazione legislativa, sospettata di incostituzionalità, è stata, invece, ritenuta legittima con la sentenza n. 194 del 1996, provvedimento con il quale il giudice delle leggi ha escluso la denunziata vulnerazione dell'art. 13 co. 2 della Costituzione, sul presupposto che la "dettagliata normativa" di tale accertamento "non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge".
Va da sé, quindi, la considerazione che l'impostazione metodologico-normativa, prevista in relazione ai controlli che vengano svolti con strumenti tecnici, già accolta a trasfusa nel testo degli artt. 186 e 187 CdS possa risultare idonea a ricomprendere nel proprio alveo anche la parte concernente i controlli ematici.
E' ben vero che questo tipo di attività di accertamento incontrerà sempre il duplice limite costituito
dalla tutela della dignità della persona,
dalla messa in pericolo della vita o dell'integrità fisica della stessa,
ma appare palese che sia possibile – previa individuazione di un punto di equilibrio – armonizzare tali irrinunziabili principi con quelle ragioni relative alla funzione della giustizia penale, le quali consistono nell'esigenza di acquisizione della prova del reato e costituiscono un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità.
Ritiene, quindi, chi scrive che la garanzia costituzionale potrà essere rispettata attraverso l’esplicazione di una dettagliata indicazione di casi di applicabilità di misure (o in alternativa di sanzioni), categoria che dovrà ineludibilmente integrarsi con la precisa esplicitazione delle reali finalità perseguite con la misura restrittiva.
La auspicabile equiparazione – seppure con i ricordati precisi limiti - del prelievo ematico rispetto ad altre e distinte forme di accertamento della condizione psico-fisica del conducente un veicolo (qualunque esso sia) non pare potere essere posta in discussione dal carattere di invasività che viene attribuito e riconosciuto a tale metodica.
Va, infatti, rilevato che laddove venisse promulgata una norma che prevedesse una articolata e rigorosa sequenza procedimentale, la quale si venisse a proporre quale prosecuzione motivata degli accertamenti preliminari (art. 186/3 CdS), l'attività di verifica presso strutture sanitarie, in stretto ossequio a protocolli medici ed alla presenza del difensore (di fiducia o di ufficio) della persona soggetto passivo del controllo, diverrebbe naturale approdo risolutivo la questione, assumendo un particolare valore anche – e soprattutto - nell'ipotesi di sostanziale rifiuto.
D'altronde, se è vero che l'analisi sia dei campioni di liquido biologico, che del sangue (questa ultima, per ora, in caso di consenso) costituisce attività di accertamento già codificata (ed utilizzabile a fini squisitamente processuali)3, non si comprende la ratio e la coerenza della eccezione che si pone in linea di principio, sottolineando marcatamente il penalizzante profilo di presunta invasività dei controlli ematici, allo scopo di negare l'utilizzabilità dei risultati così ottenuti.
E’ evidente che una simile visione del problema non è affatto connessa con temi di natura scientifica o timori di pericolosità per la salute della metodologia del prelievo (può bastare il consenso del soggetto a rendere un atto medico più o meno pericoloso?), ma si muove, invece, sull’abbrivio di un falso garantismo di maniera.
Va, pertanto, affermato – senza ipocrisia e false asserzioni - che la vexata quaestio concerne, sostanzialmente ed esclusivamente, un interpretazione molto singolare della tutela della dignità della persona.
Lungi da chi scrive la intenzione di sminuire un principio cardinale e fondamentale, prima ancora che del nostro sistema giuridico, del consesso sociale e dell'essenza umana, qualunque sia il nostro credo religioso o filosofico.
Certo è che non ci si può nascondere dietro la foglia di fico della “dignità della persona”, per giustificare quella che è una indubbia reiterata pavidità legislativa, che si appalesa in toto ogni qualvolta si appalesa la necessità di assumere interventi decisi, i quali appaiano o di carattere coattivo sul piano personale, oppure supportati da sanzioni in ragione di un inadempimento.
Non vedo, dunque, alcun attentato all'interezza e pienezza di quel diritto coevo ed intimamente insito nella nobile natura umana della singola persona, per l'ipotesi di una previsione normativa che giunga a disciplinare l'adozione di un accertamento ematico, (senza se e senza ma), anche in assenza del consenso dell'interessato, riconnettendo al solo esercizio illegittimo della facoltà di rifiuto possibili conseguenze sanzionatorie, quando una simile forma ricognitiva venga svolta con tutte le accortezze richieste a difesa della privacy della persona.
Poiché sono assolutamente contrario ad ipotetiche forme di coazione fisica, (che si configurerebbero come strumentali al prelievo coattivo e che reputo – nella fattispecie – integrerebbero un atto di violenza gratuito ed inammissibile), penso, quindi, che costituire un sinallagma fra rifiuto indebito ed infondato e correlativa sanzione, sull'abbrivio e sull’esempio delle norme già esistenti, potrebbe costituire soluzione adeguata al caso.
Il regime processuale cui ricondurre questa tipologia di accertamenti dovrebbe essere sussunto nella categoria generale degli atti di iniziativa della polizia giudiziaria (titolo IV del libro V del codice di rito) ed, in special modo, nel contesto dell'art. 354/3° c.p.p.4.

______________
1 Conformi risultano inoltre le sentenze 16 giugno 2005 n. 22599, 4 maggio 2004, n. 39057, 8 giugno 2006, n. 26783 e 25 Gennaio 2006,
2 Ud. 11 giugno 1996, decisione del 27/06/1996, deposito del 09/07/1996, pubblicazione in G. U. 17/07/1996
3 V. Direttiva del Ministero dell’interno n. 300/a/1/42175/109/42 del 29 dicembre 2005 in tema di guida in stato di ebbrezza
4 In forza di tale previsione la persona sottoposta ad accertamento deve essere informata a mezzo verbale in ordine alla possibilità di essere assistita da proprio difensore, il quale ha facoltà di presenziare alle operazioni, se immediatamente reperibile e senza obbligo alcuno per la p.g. di provvedere al suo preventivo avvisto (art. 356 c.p.p.; art. 114 disp. Att.).
Deve, inoltre, venire redatto verbale che documenti la dichiarazione/elezione del domicilio (art. 349 c.p.p.) ed eventuale nomina di difensore di fiducia, nonché eventuale autorizzazione di affidamento del veicolo a persona idonea.
Deve, poi, essere redatto verbale (art. 349 co. 2 bis c.p.p.) che documenti l’operazione di accertamento svolta.

Fonte: Altalex, 19 maggio 2009. Nota di Carlo Alberto Zaina
Link:http://www.altalex.com/index.php?idstr=70&idnot=45974


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 9 dicembre 2008 - 28 gennaio 2009, n. 4118
(Presidente Campanato - Relatore Piccialli)
Fatto e diritto
Ahmetovic Marco ricorre contro la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado che lo aveva condannato, concesse le circostanze attenuanti generiche subvalenti rispetto alle aggravanti contestate, alla pena di anni sei e mesi sei di reclusione, giorni venti di arresto ed euro 715 di ammenda nonché alla sanzione amministrativa di euro 1500, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, per i reati di omicidio colposo plurimo conseguente ad incidente stradale (a seguito dell'incidente erano deceduti quattro giovani, che viaggiavano a bordo di tre ciclomotori ed un quinto aveva riportato lesioni personali gravissime), aggravato altresì dalla previsione dell'evento ex art. 61, n. 3, c.p., resistenza continuata a pubblico ufficiale e guida in stato di ebbrezza, commessi il 23 aprile 2007.
Sui motivi di appello, diretti a sostenere l'inutilizzabilità degli accertamenti ematici eseguiti presso la struttura ospedaliera, la Corte di merito richiamava l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte secondo il quale, ai fini della configurabilità della contravvenzione della guida in stato di ebbrezza, è utilizzabile anche il referto medico relativo al ricovero in ospedale a seguito di incidente stradale, trattandosi di un documento che, a norma dell'art. 234 c.p.p., può valere come prova per il principio del libero convincimento e per l'assenza di prove legali. Allo stesso fine veniva altresì fatto riferimento alla deposizione testimoniale della titolare del bar, dal quale l'Ahmetovic era uscito la sera in cui avvenne l'incidente.
In merito alle contestazioni svolte sulla valutazione compiuta dal giudice di primo grado in ordine allo stato di ubriachezza abituale dell'imputato, i giudici di appello richiamavano, oltre alle testimonianze dei gestori del bar della zona frequentati dal ricorrente, anche gli esiti della consulenza medico legale, che attestavano un abuso di sostanze alcoliche negli ultimi otto mesi precedenti l'incidente e livelli di transaminasi e bilirubina che confermavano un danno epatico iniziale da statosi epatica da alcol.
Sull'aggravante ex art. 61, n. 3, c.p., la sentenza evidenziava il comportamento incosciente ed altamente negligente dell'Ahmetovic, il quale, nonostante fosse in grave stato di ebbrezza (nel sangue era stato rinvenuto un valore di mg 285/dl pari a circa sei volte il limite consentito) si era posto alla guida del mezzo, così prevedendo la possibilità di eventuali incidenti ma facendo affidamento [mal riposto evidentemente] sulla propria abilità al fine di evitarli.
Avverso la sentenza, propone ricorso l'Ahmetovic, che articola distinti motivi di doglianza, nessuno dei quali merita accoglimento, per le ragioni di seguito esposte.
In primo luogo, reitera l'eccezione di inutilizzabilità degli accertamenti ematici svolti presso la struttura ospedaliera, in assenza del consenso dell'imputato. In proposito si sostiene che il riferimento operato dai giudici alle condizioni fisiche dell'Ahmetovic era del tutto generico e contrastante con la documentazione in atti da cui emergevano, al contrario, buone condizioni generali del soggetto. Lamenta altresì la carenza di motivazione con riferimento alle conclusioni raggiunte dai giudici di merito circa lo stato di ubriachezza dell'imputato la sera dell'incidente, fondato sulla deposizione di una teste che non aveva effettuato nessun riconoscimento diretto dell'imputato. Analoga censura viene svolta in merito alla valutazione compiuta dai giudici di merito sullo stato di ubriachezza abituale, posto a fondamento della contestata aggravante della previsione dell'evento.
Sotto tale ultimo profilo si sostiene che il giudice di appello non avrebbe fornito adeguate risposte alle censure articolate sul rilievo della mancanza di univocità delle testimonianze assunte in merito all'uso abituale di sostanze alcoliche da parte dell'Ahmetovic e l'assenza di ogni riconoscimento diretto da parte dei testimoni. Quanto agli accertamenti medici relativi a tale abitualità, la Corte di merito non avrebbe tenuto conto dei rilievi difensivi circa l'asserita genericità del dato privilegiato (i valori di bilirubina) dal sanitario del carcere - che si assume sprovvisto di competenza specifica - e la correttezza del metodo adottato per siffatto accertamento.
Quanto all'aggravante della previsione dell'evento si sostiene che, proprio la ritenuta ubriachezza abituale dell'Ahmetovic, unitamente al dato negativo dell'assenza di precedenti specifici, doveva portare a concludere per la ragionevole convinzione del medesimo di poter guidare senza problemi. Inoltre, nonostante la ritenuta previsione dell'evento, non era stata applicata la continuazione tra omicidio colposo e la guida in stato di ebbrezza.
Infine, quanto al trattamento sanzionatorio, si contesta la severità del trattamento sanzionatorio, che non avrebbe tenuto conto che la condotta del ricorrente andava collocata nell'ambito socio-culturale di riferimento, del quale contraddittoriamente dava atto la stessa sentenza quando faceva riferimento alla radicata abitudine dell'intera comunità nomade di intrattenersi a bere nei locali pubblici del luogo. Inoltre, i giudici di appello non avrebbero tenuto conto della condotta susseguente al reato, pure prevista dall'art. 133 c.p. come elemento di valutazione, tenuta dall'imputato e documentata dalla difesa , che dimostrava la cessazione dell'assunzione di alcolici, come pure il dato emergente dagli atti che lo stesso non si era dato alla fuga dopo l'incidente, pur avendone avuto la possibilità.
Nessuna delle censure proposte può trovare accoglimento.
Quanto alla questione relativa all'utilizzabilità del prelievo ematico va ricordato il pacifico assunto interpretativo secondo cui, ai fini dell'accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell'incidente stradale sono utilizzabili, nei confronti dell'imputato, per l'accertamento del reato, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, ai fini dell'utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso.
Secondo tale prospettazione, piuttosto, solo il prelievo ematico effettuato, in assenza di consenso, non nell'ambito di un protocollo medico di pronto soccorso - e dunque non necessario a fini sanitari - sarebbe inutilizzabile ex art. 191 c.p.p. per violazione del principio costituzionale che tutela l'inviolabilità della persona (art. 13 Cost.) (cfr., da ultimo, Sezione IV, 21 settembre 2007, Saltari).
Qui, in vero, si verte nell'ambito della prima ipotesi, con conseguente piena utilizzabilità degli esiti del prelievo a fini probatori dello stato di alterazione.
Per il resto, laddove soprattutto si contesta il compendio probatorio utilizzato a supporto del ritenuto stato di alterazione, la doglianza è finanche inammissibile, laddove finisce con il proporre un sindacato di merito, da effettuare inaccettabilmente in sede di legittimità, sull'apprezzamento dei mezzi di prova, che compete al giudice di merito e che questi, peraltro, ha qui sviluppato in modo esaustivo e ampiamente logico, sì che le contestazioni operate in ricorso si risolvono solo in una diversa, opinabile lettura degli elementi indiziari.
Infatti, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché munite, in tesi, di eguale crisma di logicità, giacché, con riferimento al sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Quanto detto vale ovviamente anche in relazione agli argomenti utilizzati dal giudice di merito per ritenere dimostrata l'abitualità dello stato di alterazione da abuso di alcolici.
Inaccoglibili sono le censure articolate a proposito della colpa con previsione.
Infatti, quanto al contestato riconoscimento della colpa con previsione, il ricorrente prospetta, a supporto della censura, proprio una situazione di fatto che costituisce il proprium della aggravante, giacché è proprio l'abituale condizione di alterazione da abuso di alcolici che è stata ritenuta, non infondatamente, dimostrativa di quella malaccorta considerazione delle circostanze di fatto che hanno portato il prevenuto a porsi alla guida del mezzo in condizioni alterate senza considerare i rischi possibili di verificazione di un evento quale quello verificatosi.
Neppure può censurarsi il mancato riconoscimento della continuazione, anche prescindendo dal rilievo che trattasi di questione che non sembra neppure essere stata devoluta al giudice di appello.
Infatti, se è pur vero che l'unicità del disegno criminoso non è incompatibile con quella particolare figura di colpa che è la colpa con previsione, da ciò non discende alcun automatismo applicativo, presupponendo appunto l'attenta e rigorosa dimostrazione dell'unitarietà del disegno criminoso, la quale, come è noto, può essere ravvisata soltanto quando la decisione di commettere i vari reati sia stata presa dall'agente in un momento precedente la consumazione del primo e sia estesa a tutti gli altri, già programmati nelle loro linee generali.
A ben vedere, la pretesa del ricorrente vorrebbe evocare, rispetto a tale questione, un atteggiamento psicologico assimilabile al dolo eventuale, piuttosto che alla colpa con previsione.
In realtà, la doglianza è inaccoglibile con considerazione tout court assorbente, perché, sul punto, è oltremodo generica, perché si limita assertivamente a pretendere l'applicazione della continuazione, senza nulla dire sulle ragioni della pretesa sussistenza dei relativi presupposti.
Anche la doglianza sul trattamento sanzionatorio non può essere accolta.
Basta considerare che, come è noto, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittali rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, qualora il giudice abbia adempiuto all'obbligo di motivazione, in ordine al quale è satisfattivo il richiamo, non illogicamente effettuato, ai parametri di riferimento oggettivi e soggettivi di cui all'art. 133 c.p..
Ciò che qui il giudicante ha ampiamente sviluppato, valorizzando negativamente la gravità definita “immane” delle circostanze che hanno cagionato l'evento e le conseguenze definite “devastanti” della criminale condotta dell'imputato.
È motivazione non inconferente rispetto all'obiettività della vicenda, che non può certo essere qui sindacata.
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese del giudizio in favore delle costituite parti civili.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende; condanna altresì il ricorrente a rifondere alle parti civili le spese del giudizio, che liquida quanto a C. L., D. R., C. A. in euro 2.500, oltre accessori come per legge; quanto a T. L., M. F., T. E. in euro 2.500, oltre accessori come per legge; quanto ad A. F. G., D. C. in euro 2000, oltre accessori come per legge.
sabato 6 giugno 2009

Se l'apparecchio autovelox non è segnalato la sanzione è nulla

A distanza di due anni dalla prima pronuncia in materia (Cass., sez. II civile, sentenza 31.05.2007, n° 12833), la Suprema Corte torna ad esaminare la natura della disposizione di cui all’art. 4, D.L. 20 giugno 2002, n. 121 (conv. in L. 168/02) che prevede l’obbligo, a carico degli organi di polizia stradale, di informare gli automobilisti della presenza di dispositivi di rilevamento a distanza delle infrazioni.
Confermando l’orientamento già espresso la Seconda Sezione ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno confermando la natura cogente della segnalazione, trattandosi di norma di garanzia per l’automobilista la cui inosservanza determina la nullità della sanzione irrogata.
Disattendendo l’interpretazione fornita dal Ministero dell’Interno, secondo la quale la norma in oggetto pone una disposizione "di carattere meramente organizzativo e precauzionale", che non interferisce "con la legittimità procedimento sanzionatorio", la Corte di Cassazione (Presidente G. Settimj, Relatore P. D'Ascola) precisa che l'obbligo di informazione ivi previsto non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla p.a. (cfr in tal senso Cass. 12833/07), ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche. Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione.
Degna di menzione, inoltre, appare la questione preliminare sul difetto di legittimazione passiva della Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo che è competente sulle opposizioni ad ordinanze ingiunzioni emesse dal Prefetto e non sull'opposizione a verbale di contestazione di sanzioni amministrative. In caso di opposizione proposta avverso il verbale di accertamento di violazione al codice della strada redatto da appartenenti alla polizia stradale, infatti, la legittimazione passiva nel relativo giudizio appartiene al Ministero dell'Interno, essendo a questa amministrazione centrale attribuite specifiche competenze in materia di circolazione stradale, nonché il compito di coordinare i servizi di polizia stradale, anche se espletati da organi appartenenti ad altre amministrazioni centrali (Cass. 17677/06; 4195/06).
(Altalex, 4 giugno 2009. Nota di Giancarlo Cosomati)


Circolazione stradale – multa – velocità – apparecchiatura elettronica – avvertimento – necessità - conseguenze [d.lgs. 285/1992]
Circolazione stradale: la multa effettuata tramite apparecchiature elettroniche è nulla, se l’automobilista non è stato avvertito.
Sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali di cui all'articolo 2, comma 2, lettere A e B, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo, secondo le direttive fornite dal Ministero dell'interno, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, possono utilizzare o installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico, di cui viene data informazione agli automobilisti, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni alle norme di comportamento di cui agli articoli 142 e148 dello stesso decreto legislativo, e successive modificazioni.
L'obbligo di informazione ivi previsto non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla P.A., ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche.
Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione. (1-7)
(1) In tema di circolazione stradale, incidente e litisconsorzio, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 03.11.2008 n° 26421.(2) In materia di incidenti stradali e controversie presso il Giudice di Pace, si veda Cassazione civile, sez. III, ordinanza 07.08.2008, n. 21418.(3) In materia di incidenti stradali, si veda il Focus: Incidenti stradali: la giurisprudenza attuale.(4) Si veda il focus PLENTEDA, Multe: omessa contestazione immediata e annullamento del verbale.(5) In tema di autovelox e controllo sulla taratura, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 25.06.2008 n° 17361.(6) In materia di eccesso di velocità ed avvistabilità degli operatori, si veda Tribunale Modena, sentenza 25.11.2008.(7) In materia di multe e decurtazione di punti, si veda Cassazione civile, SS.UU., sentenza 29.07.2008, n. 20544.
Tra i contributi della dottrina, si vedano:- ZAULI, Nulla la multa per eccesso di velocità se l'autovelox non è stato segnalato sulla strada con un apposito cartello, in La Responsabilità Civile, 2007, 12;- CARBONE P., Autovelox, in Danno e Responsabilità, 2000, 12;- BATA’, SPIRITO, Circolazione stradale, in Danno e Responsabilità, 2007, 4;- BONA, La disciplina del risarcimento diretto dei danni da circolazione stradale, in Danno e Responsabilità, 2007, 3.
(Fonte: Altalex Massimario 22/2009. Cfr. nota di Giancarlo Cosomati)
SUPREMA CORTE DI CASAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 26 marzo 2009, n. 7419
FATTO E DIRITTO
Il giudice di pace di Solopaca con sentenza del 31 maggio 2005 accoglieva il ricorso proposto da A.M. avverso la Prefettura di Benevento, per l'annullamento del verbale di contestazione con cui la Polstrada di Benevento aveva rilevato l'infrazione all'art. 142, comma 8, del codice della strada. Rilevava che lungo la strada percorsa dall'automobilista non erano stati collocati appositi pannelli volti ad informare gli utenti che gli accertatori delle violazioni erano esonerati, per motivi di sicurezza, dall'obbligo della contestazione immediata.
Il Ministero dell'interno ha proposto ricorso per cassazione, notificato tempestivamente perché consegnato all'ufficiale giudiziario nell'ultimo giorno utile (lunedì 17 luglio 2006), come da timbro e sigla dell'Ufficio unico della Corte d'appello di Roma, apposti a margine della prima pagina del ricorso. M. ha resistito con controricorso.
Avviata la trattazione con il rito previsto per il procedimento in camera di consiglio, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso perché manifestamente infondato.
Preliminarmente va rilevato che l'impugnazione proposta dall'Avvocatura Generale dello Stato ha sanato il difetto di legittimazione passiva della Prefettura - Ufficio territoriale del governo, evocata in giudizio in primo grado, che è competente sulle opposizioni ad ordinanze ingiunzioni emesse dal Prefetto e non sull'opposizione a verbale di contestazione di sanzioni amministrative. È vero infatti che in caso di opposizione proposta avverso il verbale di accertamento di violazione al codice della strada redatto da appartenenti alla polizia stradale, la legittimazione passiva nel relativo giudizio appartiene al Ministero dell'interno, essendo a questa amministrazione centrale attribuite specifiche competenze in materia di circolazione stradale, nonché il compito di coordinare i servizi di polizia stradale, anche se espletati da organi appartenenti ad altre amministrazioni centrali (Cass. 17677/2006; 4195/2006), tuttavia la carente legittimazione processuale della Prefettura che sia stata erroneamente evocata in giudizio è sanata dall'impugnazione svolta per l'Amministrazione dall'Avvocatura dello Stato, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. per riferimenti Cass. 3144/2006), che si è espressa in tal senso anche con intervento delle Sezioni Unite (Cass. 3117/2006; 21624/2006). Ed infatti l'erronea individuazione dell'organo legittimato non comporta la mancata costituzione del rapporto processuale, ma una mera irregolarità, sanabile, ai sensi dell'art. 4 della l. 25 marzo 1958, n. 260, attraverso la costituzione in giudizio dell'Amministrazione, che non abbia sollevato al riguardo eccezioni o uno specifico motivo d'impugnazione (cfr. Cass. 9527/2006).
Va in secondo luogo esaminata e respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal resistente, secondo il quale nei giudizi attinenti controversie "di valore inferiore ad euro 1092,91" le sentenze del giudice di pace, in quanto rese secondo equità, non sono censurabili per violazione di legge. Vale in proposito ricordare che in tema di sanzioni amministrative, l'art. 23, comma undicesimo, della l. 24 novembre 1981, n. 689, nella formulazione introdotta dall'art. 99 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, dispone che, nel giudizio davanti al giudice di pace, non si applica l'art. 113, secondo comma, del codice di procedura c.p.c., e, quindi, preclude la pronuncia secondo equità. Conseguentemente, anche le sentenze emesse dal giudice di pace in cause di opposizione a sanzione amministrativa di valore inferiore a Lire 2.000.000 (oggi Euro 1100,00) sono ricorribili per cassazione per violazione di norme sostanziali e per vizi di motivazione (Cass. 23978/2007; 427/2006; 5297/2005).
Il Ministero dell'interno lamenta la violazione dell'art. 201-bis c.d.s. e dell'art. 4 d.l. 121/2002 conv. in l. n. 168/2002, assumendo che quest'ultima norma, nel prescrivere la segnalazione agli utenti della strada dei dispositivi di rilevamento della velocità, pone una disposizione "di carattere meramente organizzativo e precauzionale, che non interferisce "con la legittimità del procedimento sanzionatorio".
La tesi è inconferente ed infondata. L'art. 4 citato dispone che "Sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali di cui all'articolo 2, comma 2, lettere A e B, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo, secondo le direttive fornite dal Ministero dell'interno, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, possono utilizzare o installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico, di cui viene data informazione agli automobilisti, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni alle norme di comportamento di cui agli articoli 142 e148 dello stesso decreto legislativo, e successive modificazioni". L'obbligo di informazione ivi previsto ad avviso di questa Corte non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla P.A. (cfr. in tal senso Cass. 12833/2007), ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche. Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione. L'argomento svolto in ricorso è quindi privo di pregio.
Esso in ogni caso non era idoneo a scalfire la ratio della decisione, che era stata individuata dal giudice di pace, interpretando la stessa norma, nell'obbligo di segnalazione con pannelli segnaletici del fatto che si trattava di strada "sulla quale, in caso di infrazione del c.d.s., non è previsto il fermo del veicolo". Pur trattandosi di affermazione erronea, che contrasta con la lettera della legge, tanto con riguardo all'oggetto dell'avvertimento dovuto, quanto con riguardo alle infrazioni peculiarmente rilevabili, non v' è sul punto censura congruamente esposta da parte ricorrente, ditalché la pronuncia di merito deve essere confermata.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso, disponendo tuttavia la compensazione delle spese di lite, attesa la speculare erroneità del principio giuridico affermato nella sentenza impugnata e di quello sostenuto in ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.
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martedì 2 giugno 2009

L'assegno divorzile una tantum

“Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altr un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.”
Il testo appena riportato è quello del 4 comma dell’art 5 così come da ultimo modificato dall’art 10 della legge n 74 del 6 marzo 1987, norma di riferimento per la trattazione dell’istituto dell’assegno divorzile.
A premettere, si deve rivolgere l’attenzione all’orientamento espresso in materia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 11492/90, e confermato anche di recente (Cass. n. 15610/06 e n. 25436/07) ai fini dell’ accertamento del diritto all’assegno di divorzio. La Suprema Corte ha, di fatti, precisato come il riconoscimento del diritto all’assegno abbia come presupposto la mancanza di “mezzi adeguati ”o l’impossibilità di procurarseli” per ragioni oggettive”, ovvero con rimando alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante valutati sotto il profilo dei redditi posseduti “intesi come redditi idonei ad assicurare il tenore di vita goduto durante il matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del rapporto, fissate al momento del divorzio”. (Cass., sent. n. 6541 del 2002, n. 7541 del 2001).
A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (Cass., sentenze n. 15610 e n. 4764 del 2007), senza che sia indispensabile uno stato di bisogno, come richiesto in caso di alimenti, e rilevando piuttosto l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio “delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un interrotto equilibrio “(Cassazione 28 febbraio 2007, n. 4764).
Orbene la previsione dell’art 5 comma 8 della legge n. 898 del 1970 già prevedeva che “su accordo delle parti” la corresponsione potesse avvenire in unica soluzione così normativizzando un’ipotesi di liquidazione cumulativa delle spettanze dovute a titolo di assegno divorzile, alternativa, purchè oggetto di espresso consenso da parte dei coniugi, a quella della corresponsione periodica.
La novella intervenuta a seguito della legge n 74 del 1987, nell’intento di assicurare al coniuge divorziato più debole, generalmente la donna, una tutela più estesa, ha così modificato il comma 8 dell’art. 5 “su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un'unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale: in tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”
Si è così prevista la necessaria intermediazione dell’organo giudicante il quale, richiamando in parte la funzione svolta in sede di omologazione, si rende artefice di un controllo di equità con la importante conseguenza di ridurre l’accordo raggiunto dagli ex coniugi a semplice prerequisito, incapace, uti singulo,di determinare l’applicazione dell’istituto. Tramite tale giudizio il giudice eviterebbe ogni forma di abuso in danno del coniuge più debole che, a causa del suo stato di bisogno, potrebbe essere indotto ad accettare in unica soluzione attribuzioni inadeguate.
Così come modificato dalla legge n. 74 del 1987 l’assegno una tantum ha continuato a destare l’interesse dei tecnici del settore, in primis, con riguardo alla sua funzione.
Di fatti l’importo da corrispondere in forma periodica viene stabilito in base alla situazione esistente al momento della pronuncia di divorzio, con la conseguente possibilità di una sua successiva revisione, in sintonia alla funzione prevalentemente assistenziale dello stesso; al contrario l’ assegno divorzile una tantum viene concordato liberamente dai coniugi nel suo ammontare in maniera risolutiva e definitiva.
Il pagamento unico definisce una volta per tutte i rapporti economici degli ex coniugi concretizzandosi in una dazione di natura patrimoniale e producendo l’effetto di rendere immodificabili le condizioni pattuite, “le quali restano così definitivamente fissate”. Si tratta evidentemente di un finalità risarcitoria che lo porta a distinguersi dal ruolo svolto dall’assegno periodico.
Lo spartiacque tra i due istituti andrebbe rinvenuto nell’impossibilità per l’assegno divorzile una tantum di fungere da reddito, come autorevole giurisprudenza ha constatato.
La Suprema Corte, a tale riguardo, argomentando a contrario, in mancanza cioè di una disposizione legislativa che qualifichi come reddito imponibile ai fini IRPEF il provento acquisito in capo al coniuge beneficiario, ha stabilito che il trasferimento una tantum attuerebbe piuttosto l’attribuzione di una somma capitale. "Il fatto che né il legislatore della riforma tributaria del 1971 nè quello successivo, fino ad oggi, abbiano mai dettato una espressa e specifica norma impositrice (…) che qualifichi come reddito imponibile ai fini IRPEF il provento conseguito dal coniuge beneficiario, avente ad oggetto la somma di denaro risultante dalla capitalizzazione dell’assegno divorzile, costituisce un serio indizio della natura non reddituale del provento medesimo per implcita, ma inequivoca, “intenzione” del legislatore medesimo"(Cass. sez. trib. 12.10.1999, n. 11437, GI, 2000, 263).
Ma che cosa deve intendersi per reddito?
A tale riguardo giova richiamare la stessa definizione di reddito utilizzata dal legislatore ai fini della abrogata imposta di ricchezza mobile laddove si constata che “presupposto dell'imposta è la produzione di un reddito netto, in danaro o in natura, continuativo od occasionale, derivante da capitale o da lavoro, o dal concorso di capitale e lavoro, ovvero derivante da qualsiasi altra fonte...”( art. 81 comma 1 D.P.R. 29 gennaio 1958 n. 645, recante approvazione del t.u. delle leggi sulle imposte dirette). Il reddito pertanto, in primis, costituisce una nuova ricchezza che si colloca in uno stringente rapporto di causa- effetto con una “fonte produttiva”.
Mentre il reddito può predicarsi come “flusso di beni” , il patrimonio o capitale è un “fondo di beni” dal quale scaturisce il reddito come nuova ricchezza creata. Sulla base di tali premesse sembra da accogliere la tesi che ravvisa l’esistenza di “due fattispecie” separate e distinte: l’assegno corrisposto una tantum rientrerebbe nel concetto di attribuzione patrimoniale non in quello di reddito difettando del requisito di periodicità.
In conformità a ciò, l’art. 10, 1° co., lett. c) del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 Testo unico delle imposte sui redditi nell’elencare gli oneri deducibili ai fini della determinazione del reddito imponibile, vi ascrive gli “assegni periodici corrisposti al coniuge ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili nella misura in cui risulta dall’autorità giudiziaria” ma non include alla lista quelli corrisposti una tantum.
La norma, a rilievo dei più, avrebbe delineato pertanto una trattamento fiscale non omogeneo stante la possibilità per il coniuge obbligato al versamento dell’assegno periodico, di fatto equiparato ad una retribuzione, di dedurre il rispettivo importo, possibilità negata in caso di assegno una tantum .
Colta la questione, la Corte di Cassazione, ipotizzando la possibile violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione ha sollevato, con ordinanza 18 settembre 2000, n. 795, questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione sopra citata, nella parte in cui non include nella categoria di oneri deducibili ai fini IRPEF, l’assegno una tantum corrisposto all’ex coniuge in conseguenza della pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La Corte Costituzionale, in risposta, dopo aver riconosciuto la manifesta infondatezza della questione sollevata, ha invocato “la piena discrezionalità legislativa” sul punto ritenendo tale disciplina ragionevole e perfettamente collimante con i principi di capacità contributiva in quanto “… la deducibilità o meno di oneri e spese dal reddito imponibile del contribuente non è generale ed illimitata, spettando al legislatore la sua individuazione in considerazione del necessario collegamento con la produzione del reddito, con il gettito generale dei tributi e con l'esigenza di adottare le opportune misure atte ad evitare le evasioni di imposta, secondo scelte che, in questa materia, appartengono alla discrezionalità legislativa, col solo limite del rispetto del generale principio di ragionevolezza..” (Corte Cost. 22 novembre/6 dicembre 2001 n.383).
Quanto agli effetti dell’assegno divorzile, in relazione all’art 9 bis della legge sul divorzio, in tema di pensione di reversibilità in conseguenza del decesso dell’ex coniuge, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che il diritto a tale forma pensionistica si origini soltanto nell’ipotesi in cui, al tempo della regolamentazione dei rapporti economici in sede di divorzio, gli ex coniugi non abbiano optato per la corresponsione di una somma capitale “una tantum”.
La ratio ispiratrice risiederebbe nella natura liquidatoria del versamento unico, il quale sarebbe in grado di far scomparire ogni onere derivante dal pregresso vincolo matrimoniale. E, pertanto,” il coniuge divorziato che abbia ricevuto l’assegno divorzile mediante corresponsione di un capitale “una tantum”, sopravvenuto il decesso dell’ex coniuge, non può vantare diritti alla pensione di reversibilità” (Cass. sez. lav. 18-7-2002 n. 10458 ma anche C.Conti Sez III App. 14.12.2006 n 457).
Da ultimo, non meno rilevante aspetto su cui porre l’attenzione è quello relativo alla possibilità di revoca o meno dell’assegno divorzile una tantum in relazione a quanto espresso nel comma 8 dell’ art 5, sopra richiamato, ai sensi del quale, successivamente alla sua corresponsione “… non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”
Sul punto la Corte di cassazione ha allontanato ogni nuvola di dubbio precisando che se si procede ad una liquidazione in unica soluzione di quanto compete al coniuge più debole, dopo tale liquidazione non sopravvive un rapporto da cui possano scaturire nuovi ed ulteriori obblighi “in quanto l'aspettativa ad un assegno è stata esaurita attraverso l'una tantum, ed è venuto meno - a seguito del divorzio - ogni rapporto di natura personale fra i coniugi - potenziale fonte di altre pretese anche economiche. E che la conclusione suddetta è ulteriormente confortata dalla considerazione che la possibile modifica "in aumento" dell'assegno periodico trova, alla luce dell'art. 9 della legge 898, giustificazione nella circostanza che tale revisione può assumere due direzioni: può comportare cioè sia un aumento sia una diminuzione delle corresponsioni.”Invece,” se si permettesse di porre in discussione il rapporto definito con l'una tantum attraverso i meccanismi previsti dall'art.9 si perverrebbe all'assurdo di prevedere solo lo strumento attraverso cui la cifra concordata in sede di divorzio può essere …”.E’ dunque evidente “ l'intendimento del legislatore di rendere la revisione del tutto incompatibile con la liquidazione in unica soluzione, che del resto cesserebbe di essere "unica" ove potesse venir affiancata in epoca successiva da un assegno periodico”.(Cass. 29 agosto 1998 n. 8654; 27 luglio 1998 n.7365 e Corte Suprema di Cassazione ud. 28/9/2000 sent. n.126/01). La revoca deve ritenersi biologicamente incompatibile con la natura e funzione di un istituto, quale quello dell’assegno divorzile una tantum, che consente di chiudere in maniera ermetica la vicenda di un rapporto matrimoniale ormai esaurito senza lasciare spazio per ulteriori diritti quesiti.

Autori: Avv. Matteo Santini
Dott.ssa Erika Pigliapoco

Fonte:http://www.iussit.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=910&Itemid=1