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sabato 6 giugno 2009

Se l'apparecchio autovelox non è segnalato la sanzione è nulla

A distanza di due anni dalla prima pronuncia in materia (Cass., sez. II civile, sentenza 31.05.2007, n° 12833), la Suprema Corte torna ad esaminare la natura della disposizione di cui all’art. 4, D.L. 20 giugno 2002, n. 121 (conv. in L. 168/02) che prevede l’obbligo, a carico degli organi di polizia stradale, di informare gli automobilisti della presenza di dispositivi di rilevamento a distanza delle infrazioni.
Confermando l’orientamento già espresso la Seconda Sezione ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno confermando la natura cogente della segnalazione, trattandosi di norma di garanzia per l’automobilista la cui inosservanza determina la nullità della sanzione irrogata.
Disattendendo l’interpretazione fornita dal Ministero dell’Interno, secondo la quale la norma in oggetto pone una disposizione "di carattere meramente organizzativo e precauzionale", che non interferisce "con la legittimità procedimento sanzionatorio", la Corte di Cassazione (Presidente G. Settimj, Relatore P. D'Ascola) precisa che l'obbligo di informazione ivi previsto non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla p.a. (cfr in tal senso Cass. 12833/07), ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche. Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione.
Degna di menzione, inoltre, appare la questione preliminare sul difetto di legittimazione passiva della Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo che è competente sulle opposizioni ad ordinanze ingiunzioni emesse dal Prefetto e non sull'opposizione a verbale di contestazione di sanzioni amministrative. In caso di opposizione proposta avverso il verbale di accertamento di violazione al codice della strada redatto da appartenenti alla polizia stradale, infatti, la legittimazione passiva nel relativo giudizio appartiene al Ministero dell'Interno, essendo a questa amministrazione centrale attribuite specifiche competenze in materia di circolazione stradale, nonché il compito di coordinare i servizi di polizia stradale, anche se espletati da organi appartenenti ad altre amministrazioni centrali (Cass. 17677/06; 4195/06).
(Altalex, 4 giugno 2009. Nota di Giancarlo Cosomati)


Circolazione stradale – multa – velocità – apparecchiatura elettronica – avvertimento – necessità - conseguenze [d.lgs. 285/1992]
Circolazione stradale: la multa effettuata tramite apparecchiature elettroniche è nulla, se l’automobilista non è stato avvertito.
Sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali di cui all'articolo 2, comma 2, lettere A e B, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo, secondo le direttive fornite dal Ministero dell'interno, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, possono utilizzare o installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico, di cui viene data informazione agli automobilisti, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni alle norme di comportamento di cui agli articoli 142 e148 dello stesso decreto legislativo, e successive modificazioni.
L'obbligo di informazione ivi previsto non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla P.A., ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche.
Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione. (1-7)
(1) In tema di circolazione stradale, incidente e litisconsorzio, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 03.11.2008 n° 26421.(2) In materia di incidenti stradali e controversie presso il Giudice di Pace, si veda Cassazione civile, sez. III, ordinanza 07.08.2008, n. 21418.(3) In materia di incidenti stradali, si veda il Focus: Incidenti stradali: la giurisprudenza attuale.(4) Si veda il focus PLENTEDA, Multe: omessa contestazione immediata e annullamento del verbale.(5) In tema di autovelox e controllo sulla taratura, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 25.06.2008 n° 17361.(6) In materia di eccesso di velocità ed avvistabilità degli operatori, si veda Tribunale Modena, sentenza 25.11.2008.(7) In materia di multe e decurtazione di punti, si veda Cassazione civile, SS.UU., sentenza 29.07.2008, n. 20544.
Tra i contributi della dottrina, si vedano:- ZAULI, Nulla la multa per eccesso di velocità se l'autovelox non è stato segnalato sulla strada con un apposito cartello, in La Responsabilità Civile, 2007, 12;- CARBONE P., Autovelox, in Danno e Responsabilità, 2000, 12;- BATA’, SPIRITO, Circolazione stradale, in Danno e Responsabilità, 2007, 4;- BONA, La disciplina del risarcimento diretto dei danni da circolazione stradale, in Danno e Responsabilità, 2007, 3.
(Fonte: Altalex Massimario 22/2009. Cfr. nota di Giancarlo Cosomati)
SUPREMA CORTE DI CASAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 26 marzo 2009, n. 7419
FATTO E DIRITTO
Il giudice di pace di Solopaca con sentenza del 31 maggio 2005 accoglieva il ricorso proposto da A.M. avverso la Prefettura di Benevento, per l'annullamento del verbale di contestazione con cui la Polstrada di Benevento aveva rilevato l'infrazione all'art. 142, comma 8, del codice della strada. Rilevava che lungo la strada percorsa dall'automobilista non erano stati collocati appositi pannelli volti ad informare gli utenti che gli accertatori delle violazioni erano esonerati, per motivi di sicurezza, dall'obbligo della contestazione immediata.
Il Ministero dell'interno ha proposto ricorso per cassazione, notificato tempestivamente perché consegnato all'ufficiale giudiziario nell'ultimo giorno utile (lunedì 17 luglio 2006), come da timbro e sigla dell'Ufficio unico della Corte d'appello di Roma, apposti a margine della prima pagina del ricorso. M. ha resistito con controricorso.
Avviata la trattazione con il rito previsto per il procedimento in camera di consiglio, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso perché manifestamente infondato.
Preliminarmente va rilevato che l'impugnazione proposta dall'Avvocatura Generale dello Stato ha sanato il difetto di legittimazione passiva della Prefettura - Ufficio territoriale del governo, evocata in giudizio in primo grado, che è competente sulle opposizioni ad ordinanze ingiunzioni emesse dal Prefetto e non sull'opposizione a verbale di contestazione di sanzioni amministrative. È vero infatti che in caso di opposizione proposta avverso il verbale di accertamento di violazione al codice della strada redatto da appartenenti alla polizia stradale, la legittimazione passiva nel relativo giudizio appartiene al Ministero dell'interno, essendo a questa amministrazione centrale attribuite specifiche competenze in materia di circolazione stradale, nonché il compito di coordinare i servizi di polizia stradale, anche se espletati da organi appartenenti ad altre amministrazioni centrali (Cass. 17677/2006; 4195/2006), tuttavia la carente legittimazione processuale della Prefettura che sia stata erroneamente evocata in giudizio è sanata dall'impugnazione svolta per l'Amministrazione dall'Avvocatura dello Stato, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. per riferimenti Cass. 3144/2006), che si è espressa in tal senso anche con intervento delle Sezioni Unite (Cass. 3117/2006; 21624/2006). Ed infatti l'erronea individuazione dell'organo legittimato non comporta la mancata costituzione del rapporto processuale, ma una mera irregolarità, sanabile, ai sensi dell'art. 4 della l. 25 marzo 1958, n. 260, attraverso la costituzione in giudizio dell'Amministrazione, che non abbia sollevato al riguardo eccezioni o uno specifico motivo d'impugnazione (cfr. Cass. 9527/2006).
Va in secondo luogo esaminata e respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal resistente, secondo il quale nei giudizi attinenti controversie "di valore inferiore ad euro 1092,91" le sentenze del giudice di pace, in quanto rese secondo equità, non sono censurabili per violazione di legge. Vale in proposito ricordare che in tema di sanzioni amministrative, l'art. 23, comma undicesimo, della l. 24 novembre 1981, n. 689, nella formulazione introdotta dall'art. 99 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, dispone che, nel giudizio davanti al giudice di pace, non si applica l'art. 113, secondo comma, del codice di procedura c.p.c., e, quindi, preclude la pronuncia secondo equità. Conseguentemente, anche le sentenze emesse dal giudice di pace in cause di opposizione a sanzione amministrativa di valore inferiore a Lire 2.000.000 (oggi Euro 1100,00) sono ricorribili per cassazione per violazione di norme sostanziali e per vizi di motivazione (Cass. 23978/2007; 427/2006; 5297/2005).
Il Ministero dell'interno lamenta la violazione dell'art. 201-bis c.d.s. e dell'art. 4 d.l. 121/2002 conv. in l. n. 168/2002, assumendo che quest'ultima norma, nel prescrivere la segnalazione agli utenti della strada dei dispositivi di rilevamento della velocità, pone una disposizione "di carattere meramente organizzativo e precauzionale, che non interferisce "con la legittimità del procedimento sanzionatorio".
La tesi è inconferente ed infondata. L'art. 4 citato dispone che "Sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali di cui all'articolo 2, comma 2, lettere A e B, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo, secondo le direttive fornite dal Ministero dell'interno, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, possono utilizzare o installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico, di cui viene data informazione agli automobilisti, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni alle norme di comportamento di cui agli articoli 142 e148 dello stesso decreto legislativo, e successive modificazioni". L'obbligo di informazione ivi previsto ad avviso di questa Corte non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla P.A. (cfr. in tal senso Cass. 12833/2007), ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche. Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione. L'argomento svolto in ricorso è quindi privo di pregio.
Esso in ogni caso non era idoneo a scalfire la ratio della decisione, che era stata individuata dal giudice di pace, interpretando la stessa norma, nell'obbligo di segnalazione con pannelli segnaletici del fatto che si trattava di strada "sulla quale, in caso di infrazione del c.d.s., non è previsto il fermo del veicolo". Pur trattandosi di affermazione erronea, che contrasta con la lettera della legge, tanto con riguardo all'oggetto dell'avvertimento dovuto, quanto con riguardo alle infrazioni peculiarmente rilevabili, non v' è sul punto censura congruamente esposta da parte ricorrente, ditalché la pronuncia di merito deve essere confermata.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso, disponendo tuttavia la compensazione delle spese di lite, attesa la speculare erroneità del principio giuridico affermato nella sentenza impugnata e di quello sostenuto in ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.
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martedì 2 giugno 2009

L'assegno divorzile una tantum

“Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altr un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.”
Il testo appena riportato è quello del 4 comma dell’art 5 così come da ultimo modificato dall’art 10 della legge n 74 del 6 marzo 1987, norma di riferimento per la trattazione dell’istituto dell’assegno divorzile.
A premettere, si deve rivolgere l’attenzione all’orientamento espresso in materia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 11492/90, e confermato anche di recente (Cass. n. 15610/06 e n. 25436/07) ai fini dell’ accertamento del diritto all’assegno di divorzio. La Suprema Corte ha, di fatti, precisato come il riconoscimento del diritto all’assegno abbia come presupposto la mancanza di “mezzi adeguati ”o l’impossibilità di procurarseli” per ragioni oggettive”, ovvero con rimando alla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante valutati sotto il profilo dei redditi posseduti “intesi come redditi idonei ad assicurare il tenore di vita goduto durante il matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del rapporto, fissate al momento del divorzio”. (Cass., sent. n. 6541 del 2002, n. 7541 del 2001).
A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (Cass., sentenze n. 15610 e n. 4764 del 2007), senza che sia indispensabile uno stato di bisogno, come richiesto in caso di alimenti, e rilevando piuttosto l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio “delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un interrotto equilibrio “(Cassazione 28 febbraio 2007, n. 4764).
Orbene la previsione dell’art 5 comma 8 della legge n. 898 del 1970 già prevedeva che “su accordo delle parti” la corresponsione potesse avvenire in unica soluzione così normativizzando un’ipotesi di liquidazione cumulativa delle spettanze dovute a titolo di assegno divorzile, alternativa, purchè oggetto di espresso consenso da parte dei coniugi, a quella della corresponsione periodica.
La novella intervenuta a seguito della legge n 74 del 1987, nell’intento di assicurare al coniuge divorziato più debole, generalmente la donna, una tutela più estesa, ha così modificato il comma 8 dell’art. 5 “su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un'unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale: in tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”
Si è così prevista la necessaria intermediazione dell’organo giudicante il quale, richiamando in parte la funzione svolta in sede di omologazione, si rende artefice di un controllo di equità con la importante conseguenza di ridurre l’accordo raggiunto dagli ex coniugi a semplice prerequisito, incapace, uti singulo,di determinare l’applicazione dell’istituto. Tramite tale giudizio il giudice eviterebbe ogni forma di abuso in danno del coniuge più debole che, a causa del suo stato di bisogno, potrebbe essere indotto ad accettare in unica soluzione attribuzioni inadeguate.
Così come modificato dalla legge n. 74 del 1987 l’assegno una tantum ha continuato a destare l’interesse dei tecnici del settore, in primis, con riguardo alla sua funzione.
Di fatti l’importo da corrispondere in forma periodica viene stabilito in base alla situazione esistente al momento della pronuncia di divorzio, con la conseguente possibilità di una sua successiva revisione, in sintonia alla funzione prevalentemente assistenziale dello stesso; al contrario l’ assegno divorzile una tantum viene concordato liberamente dai coniugi nel suo ammontare in maniera risolutiva e definitiva.
Il pagamento unico definisce una volta per tutte i rapporti economici degli ex coniugi concretizzandosi in una dazione di natura patrimoniale e producendo l’effetto di rendere immodificabili le condizioni pattuite, “le quali restano così definitivamente fissate”. Si tratta evidentemente di un finalità risarcitoria che lo porta a distinguersi dal ruolo svolto dall’assegno periodico.
Lo spartiacque tra i due istituti andrebbe rinvenuto nell’impossibilità per l’assegno divorzile una tantum di fungere da reddito, come autorevole giurisprudenza ha constatato.
La Suprema Corte, a tale riguardo, argomentando a contrario, in mancanza cioè di una disposizione legislativa che qualifichi come reddito imponibile ai fini IRPEF il provento acquisito in capo al coniuge beneficiario, ha stabilito che il trasferimento una tantum attuerebbe piuttosto l’attribuzione di una somma capitale. "Il fatto che né il legislatore della riforma tributaria del 1971 nè quello successivo, fino ad oggi, abbiano mai dettato una espressa e specifica norma impositrice (…) che qualifichi come reddito imponibile ai fini IRPEF il provento conseguito dal coniuge beneficiario, avente ad oggetto la somma di denaro risultante dalla capitalizzazione dell’assegno divorzile, costituisce un serio indizio della natura non reddituale del provento medesimo per implcita, ma inequivoca, “intenzione” del legislatore medesimo"(Cass. sez. trib. 12.10.1999, n. 11437, GI, 2000, 263).
Ma che cosa deve intendersi per reddito?
A tale riguardo giova richiamare la stessa definizione di reddito utilizzata dal legislatore ai fini della abrogata imposta di ricchezza mobile laddove si constata che “presupposto dell'imposta è la produzione di un reddito netto, in danaro o in natura, continuativo od occasionale, derivante da capitale o da lavoro, o dal concorso di capitale e lavoro, ovvero derivante da qualsiasi altra fonte...”( art. 81 comma 1 D.P.R. 29 gennaio 1958 n. 645, recante approvazione del t.u. delle leggi sulle imposte dirette). Il reddito pertanto, in primis, costituisce una nuova ricchezza che si colloca in uno stringente rapporto di causa- effetto con una “fonte produttiva”.
Mentre il reddito può predicarsi come “flusso di beni” , il patrimonio o capitale è un “fondo di beni” dal quale scaturisce il reddito come nuova ricchezza creata. Sulla base di tali premesse sembra da accogliere la tesi che ravvisa l’esistenza di “due fattispecie” separate e distinte: l’assegno corrisposto una tantum rientrerebbe nel concetto di attribuzione patrimoniale non in quello di reddito difettando del requisito di periodicità.
In conformità a ciò, l’art. 10, 1° co., lett. c) del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 Testo unico delle imposte sui redditi nell’elencare gli oneri deducibili ai fini della determinazione del reddito imponibile, vi ascrive gli “assegni periodici corrisposti al coniuge ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili nella misura in cui risulta dall’autorità giudiziaria” ma non include alla lista quelli corrisposti una tantum.
La norma, a rilievo dei più, avrebbe delineato pertanto una trattamento fiscale non omogeneo stante la possibilità per il coniuge obbligato al versamento dell’assegno periodico, di fatto equiparato ad una retribuzione, di dedurre il rispettivo importo, possibilità negata in caso di assegno una tantum .
Colta la questione, la Corte di Cassazione, ipotizzando la possibile violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione ha sollevato, con ordinanza 18 settembre 2000, n. 795, questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione sopra citata, nella parte in cui non include nella categoria di oneri deducibili ai fini IRPEF, l’assegno una tantum corrisposto all’ex coniuge in conseguenza della pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La Corte Costituzionale, in risposta, dopo aver riconosciuto la manifesta infondatezza della questione sollevata, ha invocato “la piena discrezionalità legislativa” sul punto ritenendo tale disciplina ragionevole e perfettamente collimante con i principi di capacità contributiva in quanto “… la deducibilità o meno di oneri e spese dal reddito imponibile del contribuente non è generale ed illimitata, spettando al legislatore la sua individuazione in considerazione del necessario collegamento con la produzione del reddito, con il gettito generale dei tributi e con l'esigenza di adottare le opportune misure atte ad evitare le evasioni di imposta, secondo scelte che, in questa materia, appartengono alla discrezionalità legislativa, col solo limite del rispetto del generale principio di ragionevolezza..” (Corte Cost. 22 novembre/6 dicembre 2001 n.383).
Quanto agli effetti dell’assegno divorzile, in relazione all’art 9 bis della legge sul divorzio, in tema di pensione di reversibilità in conseguenza del decesso dell’ex coniuge, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che il diritto a tale forma pensionistica si origini soltanto nell’ipotesi in cui, al tempo della regolamentazione dei rapporti economici in sede di divorzio, gli ex coniugi non abbiano optato per la corresponsione di una somma capitale “una tantum”.
La ratio ispiratrice risiederebbe nella natura liquidatoria del versamento unico, il quale sarebbe in grado di far scomparire ogni onere derivante dal pregresso vincolo matrimoniale. E, pertanto,” il coniuge divorziato che abbia ricevuto l’assegno divorzile mediante corresponsione di un capitale “una tantum”, sopravvenuto il decesso dell’ex coniuge, non può vantare diritti alla pensione di reversibilità” (Cass. sez. lav. 18-7-2002 n. 10458 ma anche C.Conti Sez III App. 14.12.2006 n 457).
Da ultimo, non meno rilevante aspetto su cui porre l’attenzione è quello relativo alla possibilità di revoca o meno dell’assegno divorzile una tantum in relazione a quanto espresso nel comma 8 dell’ art 5, sopra richiamato, ai sensi del quale, successivamente alla sua corresponsione “… non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”
Sul punto la Corte di cassazione ha allontanato ogni nuvola di dubbio precisando che se si procede ad una liquidazione in unica soluzione di quanto compete al coniuge più debole, dopo tale liquidazione non sopravvive un rapporto da cui possano scaturire nuovi ed ulteriori obblighi “in quanto l'aspettativa ad un assegno è stata esaurita attraverso l'una tantum, ed è venuto meno - a seguito del divorzio - ogni rapporto di natura personale fra i coniugi - potenziale fonte di altre pretese anche economiche. E che la conclusione suddetta è ulteriormente confortata dalla considerazione che la possibile modifica "in aumento" dell'assegno periodico trova, alla luce dell'art. 9 della legge 898, giustificazione nella circostanza che tale revisione può assumere due direzioni: può comportare cioè sia un aumento sia una diminuzione delle corresponsioni.”Invece,” se si permettesse di porre in discussione il rapporto definito con l'una tantum attraverso i meccanismi previsti dall'art.9 si perverrebbe all'assurdo di prevedere solo lo strumento attraverso cui la cifra concordata in sede di divorzio può essere …”.E’ dunque evidente “ l'intendimento del legislatore di rendere la revisione del tutto incompatibile con la liquidazione in unica soluzione, che del resto cesserebbe di essere "unica" ove potesse venir affiancata in epoca successiva da un assegno periodico”.(Cass. 29 agosto 1998 n. 8654; 27 luglio 1998 n.7365 e Corte Suprema di Cassazione ud. 28/9/2000 sent. n.126/01). La revoca deve ritenersi biologicamente incompatibile con la natura e funzione di un istituto, quale quello dell’assegno divorzile una tantum, che consente di chiudere in maniera ermetica la vicenda di un rapporto matrimoniale ormai esaurito senza lasciare spazio per ulteriori diritti quesiti.

Autori: Avv. Matteo Santini
Dott.ssa Erika Pigliapoco

Fonte:http://www.iussit.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=910&Itemid=1