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domenica 21 marzo 2010

Il nuovo Istituto della Mediazione Civile e Commerciale

Deflazionare il sistema giudiziario italiano rispetto al carico degli arretrati e al rischio di accumulare nuovo ritardo.

E' questa la finalità del nuovo istituto della mediazione civile e commerciale, approvato con il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Gazzetta Ufficiale 5 marzo 2010, n. 53) attuativo della riforma del processo civile (Legge 69/2009).


Si tratta di una novità che, a regime, è destinata a modificare la mappatura del processo civile.


E’ definita mediazione l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti:

sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (c.d. mediazione compositiva);
sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della controversia (c.d. mediazione propositiva).

La mediazione è lo strumento per addivenire alla conciliazione; per arrivare a ciò, vi è il supporto degli organismi, ovvero enti pubblici o privati, abilitati a svolgere il procedimento di mediazione (senza l’autorità per imporre una soluzione), iscritti in un registro istituito con decreto del Ministro della Giustizia.


Libertà di forme


Chiunque può accedere alla mediazione, purchè si pongano questioni inerenti diritti disponibili, senza escludere aprioristicamente forme di negoziazione.


Non sono previste formalità particolari ed è possibile utilizzare anche modalità telematiche.


E’ sufficiente presentare un’istanza presso l’organismo competente, indicando:

l’organismo;
le parti;
l’oggetto;
le ragioni della pretesa (c.d. causa petendi).

E’ prevista una sorta di litispendenza: in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda (il tempo della domanda si individua con la data della ricezione della comunicazione).


Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni altra spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, ex art. 17.


Tuttavia, va evidenziato che vi è un nuovo obbligo per l’avvocato, che deve informare l’assistito in modo chiaro e per iscritto, nel primo colloquio, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; il documento così formato e sottoscritto dal cliente dovrà essere allegato all’atto introduttivo nell’eventuale giudizio; diversamente, sarà il giudice ad informare la parte della facoltà di intraprendere un procedimento di mediazione.


I tipi di mediazione


Sono stati previsti, essenzialmente, tre tipi di mediazione:


1) facoltativa, quando viene liberamente scelta dalle parti;


2) obbligatoria (entrerà in vigore decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, di cui si discorre, ex art. 24), quando è imposta dalla legge; il procedimento di mediazione deve essere esperito, a pena di improcedibilità (da eccepire nel primo atto difensivo dal convenuto, oppure dal giudice non oltre la prima udienza), nei casi di controversie relative a:

condominio;
diritti reali;
divisione;
successioni ereditarie;
patti di famiglia;
locazione;
comodato;
affitto di azienda;
risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti;
risarcimento del danno derivante da responsabilità medica;
risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o altro mezzo di pubblicità;
contratti assicurativi, bancari e finanziari;

3) giudiziale, quando è il giudice ad invitare le parte ad intraprendere un percorso di mediazione (con ordinanza); l’invito potrà essere fatto in qualunque momento, purchè prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa.


L’istituto della mediazione non può riguardare:

i procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
i procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento di rito di cui all’art. 667 c.p.c.;
i procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703 c.p.c., comma 3, c.p.c.;
i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione, relativi all’esecuzione forzata;
i procedimenti in camera di consiglio;
l’azione civile esercitata nel processo penale.

Procedimento


Il procedimento di mediazione ha una durata di quattro mesi:

Viene presentata la domanda di mediazione






il responsabile dell’organismo designa un mediatore, fissando il primo incontro tra le parti (non oltre quindi giorni dal deposito della domanda)




viene data comunicazione all’altra parte (se sono necessarie competenze tecniche particolari, l’organismo nomina uno o più mediatori ausiliari)





il mediatore cerca un accordo amichevole:






1)

se si raggiunge l’accordo (conciliazione), il mediatore redige processo verbale, sottoscritto dalle parti



l’accordo (non contrario all’ordine pubblico o a norme imperative), che può prevedere il pagamento di somme di denaro per ogni violazione ulteriore o inosservanza, viene omologato con decreto del Presidente del Tribunale, nel cui circondario ha sede l’organismo, previo accertamento della regolarità formale;

il verbale omologato è titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale;
2)

se non si raggiunge l’accordo (conciliazione), il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta e delle ragioni del mancato accordo



inizia il processo civile



quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa, il giudice:
a) esclude la ripetizione delle spese della parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, relativamente al periodo successivo alla stessa;
b) condanna al pagamento delle spese processuali di controparte;
c) condanna al versamento di un’ulteriore somma, di importo corrispondente al contributo unificato dovuto.



Riservatezza


Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo è tenuto all’obbligo di riservatezza, rispetto alle dichiarazioni rese ed alle informazioni acquisite durante il procedimento di mediazione, ex art. 9.


Salvo diverso accordo delle parti, le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato o riassunto a seguito dell’insuccesso della mediazione.


Il mediatore non può essere tenuto a deporre sulle dichiarazioni delle parti, conosciute nel procedimento di mediazione, fruendo delle garanzie di libertà del difensore, ex art. 103 c.p.p., nonché della disciplina sul segreto professionale, ex art. 200 c.p.p..


Organismi di conciliazione


Gli organismi deputati alla mediazione saranno enti pubblici o privati, che diano garanzia di serietà ed efficienza, iscritti in un registro.

I consigli dell’ordine degli avvocati, ma anche di altri ordini professionali, potranno istituire organismi, avvalendosi del proprio personale e dei propri locali.


Sarà istituito presso il Ministero della Giustizia l’albo dei formatori per la mediazione.


(Altalex, 8 marzo 2010. Nota di Luigi Viola.)
sabato 23 gennaio 2010

L’abuso di diritto come principio generale del nostro ordinamento. Commento a Cass. civile, sez. III, sentenza n. 20106/09.

Il caso

La casa automobilistica Renault recede dal contratto che aveva stipulato con diverse concessionarie di automobili.

La motivazione del recesso (consentita ai sensi dell’articolo 12 del contratto) è costituita dal rifiuto delle concessionarie di modificare le condizioni contrattuali così come imposte dalla casa madre, in senso sfavorevole alle concessionarie stesse.

I concessionari cui viene revocata la licenza si costituiscono in un’associazione denominata “Associazione concessionari revocati” e la questione finisce in giudizio.

In primo e in secondo grado i concessionari sono soccombenti e le loro richieste vengono rigettate.

Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della R. Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere. In altre parole, la casa automobilistica aveva semplicemente esercitato un suo diritto previsto dal contratto.

La questione finisce in Cassazione.


Sintesi della questione

La sentenza è un vero e proprio trattato di teoria generale del diritto su uno dei principi più intriganti del diritto civile, idoneo ad essere applicato ad una pluralità di fattispecie in chiave compensativa dei diritti e degli obblighi delle parti quando una di loro è in posizione di svantaggio.

Il problema è che l’abuso di diritto, come principio generale, non è previsto dal nostro ordinamento.

Dal punto di vista dottrinario, quindi, alcuni alcuni autori sostengono che l’abuso di diritto non sia un principio generale del nostro ordinamento che sarebbe ispirato, invece, al principio qui iure suo utitur neminem laedit.

Altri autori invece hanno ravvisato nel nostro ordinamento molteplici norme, che sarebbero un’espressione del generale principio del divieto di abuso: l’articolo 833 sugli atti emulativi; gli articoli 1175 e 1375; l’articolo 96 c.p.c, relativo al divieto di lite temeraria nel processo; l’articolo 2043.

La Cassazione prende posizione sull’argomento, riconoscendo all’abuso di diritto il ruolo di principio generale del diritto civile, con una sentenza esemplare per chiarezza e completezza. Ne ripercorriamo quindi l’iter logico, lasciando inalterate le parole della stessa Corte
La decisione della Corte

Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009, n. 5348; Cass. 11.6.2008, n. 15476).

Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.

L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007, n. 3462).

Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità.

In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.

In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.

La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto

Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.

È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.

La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.

Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.

Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009, n. 8481; Cass. 20.3.2009, n. 6800; Cass. 17.10.2008, n. 29776; Cass. 4.6.2008, n. 14759; Cass. 11.5.2007, n. 10838).

Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.

E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003, n. 9353).

Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005, n. 27387).

Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008, n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007, n. 11258).

In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).

Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997, n. 4538; Cass. 14.7.2000, n. 9321; Cass. 21.2.2003, n. 2642).

E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005, n. 18947).

In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009, n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (Cass. 16.10.1995, n. 10805; Cass. 26.6.2001, n. 8742; Cass. 22.3.2007, n. 6969; Cass. 8.4.2009, n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999, n. 10864; Cass. 28.7.2004, n. 14239; Cass. 7.3.2007, n. 5273).

Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008, nn. 30055, 30056, 30057).

Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.


Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.

Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.

In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.

Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.

In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio.

Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nei suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11,2007, n. 23726; Cass. 22.1.2009, n. 1618; Cass. 6.6.2008, n. 21250; Cass. 27.10.2006, n. 23273; Cass. 7.6.2006, n. 13345; Cass. 11.1.2006, n. 264).

Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007, n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).

Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.
Link: http://www.altalex.com/index.php?idnot=48597
venerdì 27 novembre 2009

Eccessiva durata del processo: i criteri di quantificazione del danno secondo la Cassazione

I criteri di determinazione del "quantum" della riparazione applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale.

E' questo il principio confermato dalla Sezione Prima Civile della Cassazione, con la sentenza n. 21840 del 14 ottobre scorso, che è tornata a pronunciarsi sul tema dell'equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, ai sensi della Legge 24 marzo 2001, n. 89.


Occorre rilevare che in tempi recentissimi la stessa Cassazione ha stabilito che “la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata” (Cass. civ. Sez. I Sent., 8 luglio 2009, n. 16086).


In detta circostanza è stata richiamata la giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), secondo cui gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni “possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, “a condizione che le decisioni pertinenti” siano “coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato”, e purché detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito”.


Con quest’ultima decisione la Corte di Cassazione è ritornata sul criterio di quantificazione del danno non patrimoniale, stabilendo che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che ha fissato un parametro tendenziale che va da Euro 1.000,00 a Euro 1.500,00 per anno, non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, quali:

l’entità della “posta in gioco”, apprezzata in comparazione con la situazione economico patrimoniale della parte;
la durata del ritardo;
il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento;
il comportamento della parte istante, sicché rileva anche il ritardo c/o la mancata presentazione della cd. istanza di prelievo, la quale non incide sul termine di durata ragionevole, ma bene può essere assunto come sintomo di uno attenuato interesse per la controversia.

In mancanza d’elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale la Corte conferma che una liquidazione remunerativa del danno “che non sia indebitamente lucrativa” possa attestarsi su una cifra non inferiore ad € 750,00, per anno di ritardo ed aggiunge una precisazione.


Si tratta di una conferma degli argomenti e dei principi svolti nella precedente citata sentenza n. 16086 del 2009, “con la precisazione che tale parametro va osservalo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di E 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno”.


Si può completare l’informazione aggiungendo che già nel 2006 la Corte di Cassazione, ripercorrendo gli arresti della Corte di Strasburgo, ha individuato nell'importo compreso tra euro 1.000,00 ed euro 1.500,00 la base di calcolo dell'indennizzo per ciascun anno in relazione al danno non patrimoniale, da quantificare poi in concreto avendo riguardo alla natura e alle caratteristiche di ciascuna controversia. (Cass. civ. Sez. I, 26 gennaio 2006, n. 1630).


In tale circostanza la decisione si basò sulle pronunce della Corte europea del 10 novembre 2004 (in particolare, sul ricorso n. 62361/2000 e sul ricorso n. 64897/2001), che avevano appunto individuato la base di calcolo dell'indennizzo per il danno non patrimoniale nell'importo compreso tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 “per ciascun anno di durata del procedimento (e non per anno di ritardo)”.


Si puntualizzò, anche allora, che il limite minimo e quello massimo potevano essere superati, nella concreta quantificazione del danno, “per le particolarità della fattispecie (quali, tra le altre, l'entità della "posta in gioco" ed il comportamento della parte istante)”.

Autore:Giuseppe Mommo
fonte: Altalex
mercoledì 21 ottobre 2009

I disabili non hanno diritto alla sosta gratuita sulle strisce blu

Le strisce blu non perdonano nessuno: tutti devono pagare.

Anche il disabile che non ha pagato il parcheggio è soggetto alla multa; ciò avviene anche se tale circostanza era collegata al fatto che non avesse trovato nessun altro posto negli spazi appositamente riservati.

Nonostante le disabilità, quindi, e nonostante una nota ministeriale dicesse il contrario, il disabile deve, in ogni caso, pagare l’ente che gestisce la segnaletica.

Nessuna rilevanza può avere il fatto che gli spazi riservati appositamente agli invalidi fossero tutti occupati; i giudici della Suprema Corte hanno, infatti, con la sentenza n. 21271/2009, bocciato il ricorso di un uomo che, nonostante avesse esposto un valido contrassegno, era stato multato per non aver pagato il ticket.

La vicenda

La questione nasce proprio dal ricorso presentato da un disabile il quale aveva impugnato un verbale ricevuto dai vigili urbani, poichè si riteneva in diritto di lasciare l’auto sulle strisce blu senza pagare il ticket dal momento che l’area riservata agli invalidi era già stata occupata da altri.

Queste sue ragioni non hanno, però, trovano riscontro in causa: infatti, prima il magistrato onorario, e poi i giudici della Suprema Corte hanno respinto la sua istanza chiarendo che al riguardo non esiste una legge che prevede l’esenzione per i disabili dal pagamento del ticket della sosta sulle strisce blu.

Si leggeva in sentenza che “…… gli artt. 188, comma 3, c.d.s. e 11, comma 1, d.P.R. n. 503/1996., prevedono per i titolari del contrassegno l’esonero, rispettivamente, dai limiti di tempo nelle aree di parcheggio a tempo determinato e dai divieti e limitazioni della sosta disposti dall’autorità competente; l’obbligo del pagamento di una somma è, invece, cosa diversa dal divieto o limitazione della sosta, come del resto è confermato dall’art. 4, comma 4, lett. d), c.d.s. (per il quale l’ente proprietario della strada può vietare o limitare o subordinare al pagamento di una somma il parcheggio o la sosta dei veicoli’) che li considera alternativi”.

Neppure può avere fondamento il fatto di invocare a sostegno di una diversa interpretazione, come fa il ricorrente, l’esigenza di favorire la mobilità delle persone disabili.

Disabili e parcheggi a pagamento: la nota Ministeriale

E’ dell’anno 2006 una nota in tema di gratuità dei posteggi delimitati dalle strisce blu a pagamento occupati da veicoli al servizio delle persone invalide detentrici di speciale contrassegno.

Tale nota è del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Dipartimento per i trasporti terrestri - Direzione generale per la motorizzazione, 6 febbraio 2006, Prot n. 107, concernente "Richiesta chiarimenti sulla gratuità dei posteggi delimitati da segnaletica blu a pagamento quando sono occupati da veicoli al servizio delle persone invalide detentrici di speciale contrassegno"

In tale nota ministeriale si legge che “Non vi è dubbio, a parere di questo Ufficio, che non si possa chiedere il pagamento di una tariffa oraria a chi, trovando occupato lo stallo a lui appositamente riservato, ne occupi un altro, peraltro non adeguatamente attrezzato a soddisfare in pieno le sue esigenze, potendosi imputare tale disagio anche ad una mancata previsione, da parte dell’ente proprietario, di un maggior numero di stalli riservati”.

Secondo quanto stabilito dal Ministero, quindi, il parcheggio in posteggi delimitati da segnaletica blu deve essere gratis per chi è munito di contrassegno che prova l'invalidità.

La presente nota era stata già annullata con Sentenza n. 6044 del 25 maggio 2006 del TAR del Lazio (Sezione III ter.

Le conseguenze della sentenza

Gli effetti della decisione presa dai giudici nella sentenza in commento possono ricondursi sostanzialmente e praticamente nel fatto che d’ora in poi non rimarranno più strumenti normativi a tutela dei cittadini portatori di handicap, con invalidità, per invocare la gratuità incondizionata dei parcheggi regolamentati a pagamento.

La gratuità della sosta è consentita solamente nelle aree custodite, ma se i posti riservati sono occupati da altri titolari di contrassegno il pagamento è comunque dovuto.

Rimane, comunque, il fatto che deve essere previsto almeno un parcheggio ogni 50 riservato e gratuito per i soggetti muniti di contrassegno.

Fonte: Altalex, 20 ottobre 2009.
Autore:Manuela Rinaldi
sabato 26 settembre 2009

Brevi considerazioni sul reato di immigrazione clandestina

All'indomani della entrata in vigore della Legge n. 94 del 15 luglio 2009 recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, autorevoli commentatori e soprattutto operatori pratici del diritto hanno manifestato preoccupazione per l'impatto che certe disposizioni potrebbero avere sulla gestione quotidiana del lavoro negli uffici sia di polizia che giudiziari.

In particolare desta sgomento il riflesso che l'applicazione dell'art. 10 bis del D.lgs. 286/98 potrebbe avere sugli uffici del giudice di pace, sulla polizia giudiziaria, sulle Procure della Repubblica e anche sugli ufficiali giudiziari, questi ultimi incaricati di una notevole messe di notificazioni urgenti.

Trattasi infatti di uffici tutti già oberati da carichi di lavoro insostenibili e con organici non in grado sopportare nuovi aggravi se non a prezzo di ulteriori lungaggini che verrebbero puntualmente e giustamente stigmatizzate dall’esterno.

Infatti numerosissimi sono gli stranieri clandestini astrattamente sanzionabili con la citata contravvenzione di competenza del giudice di pace per la quale la legge 94/09 introduce anche un rito speciale caratterizzato da inusitata velocità. Al momento del controllo molti di essi stranieri non esibiscono alcun documento, violando così anche l'art. 6 comma III del D.lgs. 286/98, contravvenzione di competenza del giudice ordinario.

Ne deriva quindi una duplicazione di processi per l'applicazione, in entrambi i casi, di pene veramente irrisorie e spesso ineseguibili, essendo gli stranieri, che incorrono in tali violazioni, notoriamente insolventi e irreperibili.

Tuttavia una lettura attenta delle norme coniugata a quei risvolti di pratica giudiziaria che il legislatore dimostra di conoscere ben poco o di tenere punto in considerazione, può svelare scenari più confortanti o comunque tali da far ritenere meno devastante tale impatto.

A ben vedere, l'art. 10 bis punisce “lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene sul territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico” (D.lgs. 286/98).

La prima condotta (l'ingresso) verrà punita nei casi, piuttosto limitati, in cui il soggetto viene sorpreso nel momento in cui varca la frontiera o, al più, immediatamente dopo. Evidentemente il legislatore, resosi conto che tale evenienza è di difficile verificazione, ha inserito una condotta alternativa (il trattenimento) normalmente di più frequente e più facile riscontro.

Tuttavia la pubblica accusa al fine di provare la responsabilità dello straniero per tale reato, a meno di non volere ipotizzare inammissibili inversioni dell'onere della prova, dovrà dimostrare che lo straniero soggiornava sul nostro territorio da più di otto giorni lavorativi atteso che l'art. 5, comma 2 del D.lgs. 286/98 prevede che il permesso di soggiorno debba essere richiesto entro otto giorni lavorativi dall'ingresso. Del resto lo straniero, ai sensi dell'art. 4 del D.lgs. citato, può entrare nello Stato con il passaporto o documento equipollente e il visto di ingresso rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello stato di origine.

Dunque la prova della durata della permanenza potrà ricavarsi dal visto apposto sul passaporto, ma se lo straniero non lo esibisce tale accertamento non sarà possibile, tuttavia egli dovrà rispondere del reato di cui all'art. 6, comma 3, D.lgs. 286/98.

A questo punto si pone il quesito se il legislatore, laddove nell'art. 10 bis ha richiamato la violazione delle norme del testo unico come presupposto per la configurabilità della contravvenzione prevista dalla norma, abbia inteso riferirsi solo alle norme amministrative che disciplinano l'ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale ovvero anche alle norme di rango penale compreso il menzionato art. 6. Solo in questa seconda ipotesi la mancata esibizione del passaporto integrerebbe anche il reato di cui all'art. 10 bis perché la permanenza illegale si concreterebbe e si dimostrerebbe con il rifiuto di esibire il documento, condotta che integrerebbe violazione del relativo obbligo previsto e punito dall’art. 6. In tal caso però i reati si potrebbero considerare commessi con una sola azione o omissione e perciò in concorso formale ai sensi dell'art. 81 comma 1 c.p., con conseguente attrazione della competenza al giudice ordinario anche per il reato di cui all'art. 10 bis.

Ne deriverebbe pertanto la possibilità di evitare di processare migliaia di stranieri anche davanti al giudice di pace con un rito simile a quello direttissimo che richiede, tra l'altro, un forte impegno di tempo e di professionalità ai corpi di polizia giudiziaria oltre a un notevole esborso di denaro pubblico per sostenere gli oneri del patrocinio a spese dello stato che i difensori puntualmente richiederanno.

E' ben vero che la prova della permanenza da oltre otto giorni nel territorio dello Stato potrebbe scaturire da una precedente fotosegnalazione, da una testimonianza o da una qualsiasi traccia documentale della presenza dello straniero nel nostro territorio, ma è anche vero che non potrebbe escludersi la circostanza che il soggetto sia nel frattempo uscito e di nuovo rientrato nel territorio dello Stato prima della scadenza di quel termine di otto giorni da cui nasce l'obbligo di richiedere il permesso di soggiorno.

Pertanto, anche in tali casi, potrebbe essere richiesta l'archiviazione non essendovi elementi sufficienti a sostenere l'accusa in giudizio.

Infine, è appena il caso di aggiungere che un ulteriore restringimento all’applicazione dell’art. 10 bis è determinato dalla clausola di salvezza ivi contenuta la quale fa sì che detta contravvenzione debba ritenersi assorbita nei più gravi reati apparentemente concorrenti di cui agli artt. 13 comma 13 e 14 commi 5 ter e 5 quater del medesimo testi unico.

Si può dunque concludere che, se tale percorso esegetico fosse sostenibile e quindi venisse condiviso dalla giurisprudenza, i casi di applicazione sia dell'art. 10 bis, sia del rito speciale, dal punto di vista statistico, potrebbero essere meno significativi del previsto e il tributo da pagare alla “propaganda” potrebbe essere meno esoso.
Autore: Massimmo Mannucci
link:http://www.altalex.com/index.php?idnot=47103
martedì 15 settembre 2009

Il caso "Mutu".

Nelle ultime settimane si è molto discusso del "caso Mutu", che merita una analizi delle circostanze e delle ragioni in virtù per le quali è maturata una vicenda di non certo usuale frequenza nel mondo sportivo. Tutto nasce da una grave violazione contrattuale del giocatore nei confronti della società di appartenenza: l'assunzione di sostanze proibite in costanza di rapporto di lavoro. In conseguenza del fatto il Chelsea si è attivato davanti al Collegio arbitrale competente chiedendo e ottenuto la risoluzione del contratto per giusta causa. Ciò ha costituito le premesse per il riconoscimento del risarcimento dei danni. Cercheremo di spiegare i passaggi logico-giuridici della vicenda, in primo luogo esaminando in quale modo si sia arrivati alla determinazione dell'indennizzo, e se si possano rinvenire società calcistiche soldamente responsabili con il calciatore rumeno.

Il TAS nella determinazione dell'importo ha semplicemente individuato tutti i costi sostenuti per l'acquisizione delle prestazioni del calciatore che non risultavano essere ammortizzati al momento dell'interruzione del rapporto. Considerando infatti che nell'agosto del 2003 il calciatore si è trasferito al club londinese per 22,5 milioni di Euro e che lo stesso aveva onorato solo una delle cinque annualità che lo legavano al club, il TAS ha imposto ad Adrian Mutu di pagare una somma superiore ai 18 milioni di euro, dato che ai 17.173.990 Euro, più volte richiamati nelle testate giornalistiche in questi giorni, devono essere aggiunti anche gli interessi e le ulteriori spese processuali. La somma, che a prima vista potrebbe apparire elevata, è comunque da ritenersi proporzionata al valore del calciatore e all'effettivo danno arrecato al Club.



Come è noto la particolarità della fattispecie è che la sentenza, emanata nei confronti del giocatore, che da solo è stato condannato al pagamento di una ingente somma di denaro non abbia coinvolto la responsabilità solidale del club successivo di tesseramento, ma abbia rinvenuto nel solo giocatore rumeno l'unico soggetto passivo dell'obbligazione risarcitoria. Tale elemento differenzia il caso Mutu da altri precedenti dello stesso TAS (ad esempio il caso Matuzalem) ove la sanzione pecuniaria alla quale il giocatore era stato condannato era di poco inferiore ai dodici milioni di Euro, me che non suscitò però lo stesso scalpore, proprio perché accompagnata dalla condanna solidale della società alla quale il calciatore era successivamente pervenuto, il Real Saragozza.



Analizziamo le ragioni per le quali il Chelsea ha agito solo nei confronti del calciatore rumeno senza allargare la controversia né al Livorno o alla Juventus, come da alcuni fatto notare. Anzitutt l'art. 17, par. 2, del Regolamento FIFA sullo Status e trasferimento dei Calciatori, limita la responsabilità solidale alla Società calcistica alla quale il calciatore sia pervenuto dopo l'interruzione del rapporto con la Società di provenienza, quindi unicamente al Livorno, escludendo le società successive, vale a dire Juventus e Fiorentina. Comunque il citato paragrafo è stato inserito fra le norme solo nell'edizione del 2005. Nel caso specifico è risultata applicabile quindi l'edizione precedente del Regolamento, ecco perché il Chelsea ha limitato l'azione al solo Mutu. In linea squisitamente teorica, ai sensi dell'art. 23 del Regolamento del 2001, avrebbe potuto casomai sostenere la responsabilità del Livorno riguardo alla intervenuta interruzione del rapporto di lavoro: in tale disposizione infatti il tentativo di tesserare un calciatore che avesse rescisso unilateralmente un contratto avrebbe potuto essere considerato una induzione alla rescissione del contratto stesso, con conseguente successiva responsabilità della Società stessa: ipotesi però difficile da ritenersi sussistente nel caso Mutu, visto che dal competente Collegio Arbitrale la responsabilità contrattuale era stata ritenuta riferibile esclusivamente al calciatore. Tale strada non sarebbe oggi neanche più percorribile dato che la DRC non può prendere in considerazione ed attivare procedimenti nei due anni successivi al verificarsi dell'evento. E' ovvio come sia oggi decorso ogni relativo termine e che la sentenza sia ormai da ritenersi definitiva in sede sportiva e produttiva di effetti solo tra le parti. C'è poi da domandarsi se il calciatore rumeno possa essere oggi squalificato, ove non provveda a tale pagamento: la risposta non può che essere affermativa. La Commissione disciplinare della FIFA ha infatti la possibilità di escludere dalle partite ufficiali il calciatore stesso. Sul punto esiste, inoltre, il precedente dell'Arges Pitesti. Mutu come "ultima possibilità" potrebbe adcire il Tribunale Federale Svizzero, ma si tratterebbe di un ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria in sede civile, al quale il calciatore dovrebbe essere preventivamente autorizzato dagli organi sportivi sotto pena di severe squalifiche ed ulteriori sanzioni. Insomma, la vicenda, almeno sostanzialmente, sembra destinata a finire qui: c'è da ritenere infatti che la fattispecie non induca più a sconti, riduzioni o economie.


Fonte:Fiorentina.it
Autore:Massimo Mereu (docente del Master "Diritti e Management dello Sport" Università Telematica E-Campus di Noverate) - Guerin Sportivo
sabato 8 agosto 2009

L'Enel s.p.a. è responsabile dei danni arrecati agli utenti a causa del black-out elettrico

Fra le tante sentenze in cui Enel è stata condannata a risarcire i danni provocati dalla mancata somministrazione di energia elettrica dovuta ad un black out, si evidenzia la pronuncia del Giudice di Pace di Casoria con la sentenza n. 2961 depositata il 13 luglio 2005.

L'iter argomentativo della decisione è stato il seguente:

tra il gestore elettrico ed il cittadino sussiste un contratto di somministrazione di tipo continuativo e di consumo avente ad oggetto la fornitura di energia elettrica;
l’avvenuta sospensione della somministrazione dell’energia elettrica integra la mancata esatta esecuzione del contratto di fornitura di energia elettrica, che obbliga la parte inadempiente al risarcimento dei danni;
il gestore peraltro non ha provato che l’inadempimento fosse da ricondurre a causa a lui non imputabile;
dall’accertamento dell’inadempimento contrattuale discende che la parte inadempiente sia tenuta al risarcimento dei danni patiti dalla controparte, dovendosi ritenere che, nel caso di contratto di somministrazione di energia elettrica, per costante dottrina e giurisprudenza, debba ravvisarsi, oltre l’obbligo principale della somministrazione anche quella accessoria derivante dal c.d. impegno di potenza, cioè quella prestazione continua, accessoria e strumentale a quella principale della fornitura, e si sostanzia in una nell’obbligo del somministrante di predisporre e mantenere l’impianto in modo da tenere a disposizione dell’utente una determinata quantità di energia, a cui corrisponde un corrispettivo fisso, da parte dell’utente, da pagarsi periodicamente e che viene a maturare contemporaneamente al consumo di energia;
il risarcimento, da liquidarsi in via equitativa, comprende il danno patrimoniale, determinato dall'avaria di alcuni dei cibi che costituiscono le normali scorte alimentari di una famiglia e che necessitano di costante refrigerazione come latte, carne, burro, generi congelati, ed il danno esistenziale, derivante dalla rinuncia dell’utente di tutte o molte di quelle attività, ricreazione e svago che costituiscono la normale aspettativa di ogni essere umano nel giorno di riposo.