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sabato 23 gennaio 2010

L’abuso di diritto come principio generale del nostro ordinamento. Commento a Cass. civile, sez. III, sentenza n. 20106/09.

Il caso

La casa automobilistica Renault recede dal contratto che aveva stipulato con diverse concessionarie di automobili.

La motivazione del recesso (consentita ai sensi dell’articolo 12 del contratto) è costituita dal rifiuto delle concessionarie di modificare le condizioni contrattuali così come imposte dalla casa madre, in senso sfavorevole alle concessionarie stesse.

I concessionari cui viene revocata la licenza si costituiscono in un’associazione denominata “Associazione concessionari revocati” e la questione finisce in giudizio.

In primo e in secondo grado i concessionari sono soccombenti e le loro richieste vengono rigettate.

Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della R. Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere. In altre parole, la casa automobilistica aveva semplicemente esercitato un suo diritto previsto dal contratto.

La questione finisce in Cassazione.


Sintesi della questione

La sentenza è un vero e proprio trattato di teoria generale del diritto su uno dei principi più intriganti del diritto civile, idoneo ad essere applicato ad una pluralità di fattispecie in chiave compensativa dei diritti e degli obblighi delle parti quando una di loro è in posizione di svantaggio.

Il problema è che l’abuso di diritto, come principio generale, non è previsto dal nostro ordinamento.

Dal punto di vista dottrinario, quindi, alcuni alcuni autori sostengono che l’abuso di diritto non sia un principio generale del nostro ordinamento che sarebbe ispirato, invece, al principio qui iure suo utitur neminem laedit.

Altri autori invece hanno ravvisato nel nostro ordinamento molteplici norme, che sarebbero un’espressione del generale principio del divieto di abuso: l’articolo 833 sugli atti emulativi; gli articoli 1175 e 1375; l’articolo 96 c.p.c, relativo al divieto di lite temeraria nel processo; l’articolo 2043.

La Cassazione prende posizione sull’argomento, riconoscendo all’abuso di diritto il ruolo di principio generale del diritto civile, con una sentenza esemplare per chiarezza e completezza. Ne ripercorriamo quindi l’iter logico, lasciando inalterate le parole della stessa Corte
La decisione della Corte

Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009, n. 5348; Cass. 11.6.2008, n. 15476).

Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.

L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007, n. 3462).

Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità.

In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.

In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.

La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto

Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.

È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.

La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.

Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.

Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009, n. 8481; Cass. 20.3.2009, n. 6800; Cass. 17.10.2008, n. 29776; Cass. 4.6.2008, n. 14759; Cass. 11.5.2007, n. 10838).

Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.

E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003, n. 9353).

Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005, n. 27387).

Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008, n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007, n. 11258).

In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).

Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997, n. 4538; Cass. 14.7.2000, n. 9321; Cass. 21.2.2003, n. 2642).

E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005, n. 18947).

In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009, n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (Cass. 16.10.1995, n. 10805; Cass. 26.6.2001, n. 8742; Cass. 22.3.2007, n. 6969; Cass. 8.4.2009, n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999, n. 10864; Cass. 28.7.2004, n. 14239; Cass. 7.3.2007, n. 5273).

Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008, nn. 30055, 30056, 30057).

Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.


Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.

Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.

In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.

Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.

In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio.

Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nei suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11,2007, n. 23726; Cass. 22.1.2009, n. 1618; Cass. 6.6.2008, n. 21250; Cass. 27.10.2006, n. 23273; Cass. 7.6.2006, n. 13345; Cass. 11.1.2006, n. 264).

Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007, n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).

Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.
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